Reati tributari e rapporti con il sequestro e la confisca
di Luigi FerrajoliL’articolo 12 bis, comma 1, D.Lgs. 74/2000, prevede espressamente che “nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p, per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.
Il comma 2 stabilisce che “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”.
Tale asserzione, secondo recente giurisprudenza (Cass. Pen., n. 5728/2016), si riferisce “ai soli casi di obbligo assunto in maniera formale, tra i quali rientra l’ipotesi di accordo, raggiunto con l’Agenzia delle Entrate, per il pagamento rateale del debito di imposta. Tale previsione, tuttavia, non preclude l’adozione del sequestro preventivo ad essa confisca finalizzato, relativamente agli importi non ancora corrisposti; ovvero in presenza di un piano rateale di versamento, sia pure limitato agli importi non ancora corrisposti”.
Ne consegue che la funzione del vincolo cautelare è quella di garantire che la misura ablativa utilizzata produca i propri effetti qualora il versamento “promesso” non si verifichi; ciò è stato chiarito dalla sentenza n. 28745/2018 del 21.06.2018 dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione.
Nel caso di specie, gli imputati, anche quali rappresentati legali della società coinvolta, avevano depositato istanza di riesame, ex articolo 324 c.p.p., avverso il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca emesso dal GIP ed avente oggetto le somme di danaro giacenti su conti correnti intestati agli imputati, o ad essi riconducibili, nonché su beni immobili e mobili di proprietà di costoro, fino alla concorrenza della somma derivante dai reati tributati di omesso versamento dell’Iva e delle ritenute alla fonte.
Il Tribunale della libertà aveva rigettato l’istanza e gli imputati decidevano dunque di proporre ricorso per cassazione avverso tale provvedimento eccependo, come unico motivo, la violazione dell’articolo 606, comma 1, lett. b) e d), c.p.p. relativamente all’erronea applicazione della legge e conseguentemente la manifesta illogicità della motivazione.
Nello specifico, i ricorrenti eccepivano l’idoneità dell’accordo transattivo costituito con l’amministrazione finanziaria a costituire presupposto per la revoca, in quanto la società aveva effettuato la procedura per la definizione del debito fiscale nei confronti dell’Erario, attraverso il pagamento rateale dell’imposta evasa; rappresentavano anche che la società avrebbe vantato dei crediti per una somma molto superiore a quella sequestrata.
Il Giudice di legittimità, con la sentenza in esame, ha rigettato il ricorso proposto dai contribuenti, precisando che il ricorso per cassazione contro le ordinanze riguardanti il sequestro preventivo o probatorio è ammesso esclusivamente per violazione di legge, dovendosi ricomprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, nonché quei vizi della motivazione così radicali da rendere le argomentazioni poste a sostegno del provvedimento prive dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice.
Non solo. La Corte ha ritenuto irrilevante ai fini della revoca o della riduzione del sequestro l’accordo transattivo concluso con l’ente amministrativo.
Più in particolare, il Tribunale adito aveva correttamente osservato che la rateizzazione era appena iniziata e la difesa non avrebbe prodotto in giudizio sufficienti elementi per determinare l’eventuale importo entro cui avrebbe dovuto essere ridotto il provvedimento ablatorio, atteso che i beni sequestrati risultavano notevolmente inferiori rispetto alla somma evasa.
La Corte, riprendendo un principio giurisprudenziale sancito dalla Sezioni Unite (Cass. Pen., n. 10561/2014), ha inoltre ritenuto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente possa essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e all’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata.
Sul punto la Corte ha precisato che “in caso di reati tributari commessi dall’amministratore di una società, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dello stesso, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato” (Cass. Pen., n. 10418/2018).
Nel caso in esame, essendo risultato parzialmente incapiente il sequestro diretto del profitto del reato, il sequestro era stato correttamente esteso “per equivalente” ai beni nella disponibilità dei soggetti che hanno ricoperto cariche direttive nella società.