Redditi esteri di lavoro dipendente al test credito di imposta
di Nicola Fasano
Per i redditi derivanti dallo svolgimento dell’attività di lavoro dipendente all’estero, i sostituti di imposta e i loro consulenti, avvicinandosi la fine dell’anno, si interrogano sulle nuove indicazioni dettate dall’Agenzia delle entrate con la risoluzione n. 48/E dell’8 luglio scorso in tema di calcolo del relativo credito di imposta. Come noto tale credito, ai sensi dell’art. 165, TUIR, deve determinarsi una volta che l’imposta estera è divenuta “definitiva”, a seconda dei casi, in sede di dichiarazione da parte del soggetto interessato o, secondo quanto previsto dall’art.23 d.p.r. n.600/73, in sede di conguaglio da parte del sostituto di imposta italiano con cui il dipendente abbia mantenuto il rapporto di lavoro.
Quello del prossimo conguaglio da parte del datore di lavoro, in effetti, è il primo vero banco di prova delle nuove direttive impartite dall’amministrazione finanziaria, visto che la risoluzione n.48/E, pubblicata l’8 luglio, è intervenuta a conteggi sull’anno 2012 oramai conclusi (il saldo Irpef 2012 è stato generalmente versato nel precedente mese di giugno) ed in prossimità della pausa estiva.
Preliminarmente, pare opportuno fare un paio di precisazioni:
- La risoluzione n.48/E, evidentemente, indirizzerà l’attività degli uffici in particolar modo per quanto riguarda l’attività di controllo formale ex art.36-ter, d.p.r. 600/73 sulle modalità di calcolo del credito di imposta per le imposte pagate all’estero, ma, non trattandosi di una norma di legge, non necessariamente vincola gli operatori ad adeguarsi. E’ evidente, tuttavia, come qualora si ritenga di continuare a determinare il credito di imposta con la prassi che si era consolidata negli anni passati, si deve mettere in conto la concreta possibilità che, in caso di controllo, la questione vada affrontata in contenzioso.
- Sicuramente per il passato (ossia per i pagamenti e i calcoli del credito di imposta effettuati prima dell’intervento interpretativo dell’Agenzia delle entrate) eventuali contestazioni da parte dell’Agenzia delle entrate non dovrebbero comportare applicazione di qualsivoglia sanzione, visto che appare di tutta evidenza che nel caso di specie ricorrano le “condizioni di obiettiva incertezza” a cui l’art.10 dello Statuto del contribuente (oltre che l’art.6, co.2 del d.lgs. n.472/97) subordina la mancata applicazione delle sanzioni.
Ciò detto, entrando nel merito della questione, il credito di imposta per le tasse, divenute definitive, pagate all’estero dal lavoratore dipendente che resta fiscalmente residente in Italia ai sensi dell’art. 2, TUIR, deve essere riproporzionato secondo quanto previsto dall’art.165, comma 10 (introdotto dal d.l. n.223/2006). Ciò in quanto, ricorrendo le condizioni di cui all’art.51, comma 8-bis, TUIR (ossia lo svolgimento in via continuativa e quale oggetto esclusivo dell’attività di lavoro dipendente all’estero per un periodo di almeno 183 giorni nell’arco di 12 mesi), il dipendente che lavora all’estero viene tassato non su base analitica, ma sulla base delle c.d. “retribuzioni convenzionali” annualmente stabilite di concerto da Ministero del Lavoro e Ministero dell’Economia, generalmente più favorevoli della retribuzione effettiva percepita dal lavoratore.
Di conseguenza, ai fini del calcolo del credito di imposta, vi è l’esigenza, fra l’altro, di parametrare le imposte estere al rapporto che vi è fra il reddito imponibile italiano (determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali) e il reddito estero.
Per “reddito estero”, in assenza di chiarimenti ufficiali da parte dell’amministrazione finanziaria sul punto, si riteneva nella prassi degli operatori dovesse intendersi il reddito tassato secondo le regole estere e risultante dalla dichiarazione fiscale estera o dalla certificazione rilasciata dal datore di lavoro estero.
Secondo quanto chiarito dalla risoluzione n.48/E, invece, al fine di evitare sperequazioni di trattamento derivanti dalle differenti caratteristiche del sistema tributario di ciascun Paese (a seconda della maggiore o minore generosità delle regole di tassazione del lavoro dipendente ivi operanti) è necessario rideterminare il reddito estero sulla base delle regole italiane di cui all’art. 51, commi da 1 a 8, come se l’attività lavorativa fosse svolta in Italia.
Tuttavia la risoluzione, al di là del principio, non fornisce alcun esempio pratico. Di qui una serie di dubbi applicativi qualora si intenda aderire, per “quieto vivere”, all’orientamento del Fisco.
In prima approssimazione si può dire che debba farsi riferimento senz’altro a tutte le voci retributive cash riconosciute al dipendente (valutando eventualmente l’applicazione del beneficio della riduzione al 50% dell’indennità di trasferimento con la soglia massima di esenzione pari a euro 4.648), nonché, in linea di principio, ai benefit accordati da determinarsi con le regole dell’art. 51 (con criticità soprattutto per quanto riguarda la valorizzazione dell’alloggio estero messo a disposizione da determinarsi sulla base del “valore normale”). A meno che non si voglia valorizzare, anche in ambito fiscale, quel filone giurisprudenziale sviluppatosi in materia previdenziale secondo cui, ai fini del calcolo della base imponibile in caso di distacco del dipendente in Paesi previdenzialmente convenzionati, i benfit in esame avrebbero natura “risarcitoria” e non retributiva e potrebbero dunque essere esclusi dalla base di calcolo (cfr. Cass. Sent. n.3999 del 21/12/2012)
Insomma, l’intervento dell’Agenzia non pare di certo improntato alla semplificazione, per cui sarebbe auspicabile un ripensamento o quanto meno un chiarimento pratico che aiuti a dipanare la questione ed evitare consistenti contenziosi.