Il reddito minimo non sconta l’Inps
di Alessandro BonuzziIl reddito minimo che scaturisce dall’applicazione della disciplina delle società di comodo non è soggetto alla contribuzione previdenziale Inps. Lo ha stabilito la sentenza n. 161/2018 del Tribunale ordinario di Cuneo pubblicata il 22 agosto 2018.
La vicenda trae origine da un avviso di addebito emesso dall’istituto previdenziale nei confronti di un socio di una Snc, che contestava l’omesso versamento di contributi alla Gestione commercianti in relazione al reddito d’impresa dichiarato dalla società nell’anno d’imposta 2013.
Invero, la società, nell’anno oggetto di contestazione, non aveva prodotto alcun reddito effettivo, tuttavia, essendo stata di comodo, aveva dovuto dichiarare il reddito minimo, calcolato applicando ai valori dell’attivo patrimoniale i coefficienti stabiliti dall’articolo 30, comma 3, L. 724/1994.
In particolare, la Snc era ricaduta nella disciplina delle società di comodo per aver dichiarato perdite reiterate negli anni precedenti. Si ricorda, infatti, che le società che presentano:
- dichiarazioni in perdita fiscale per tre o, dall’esercizio in corso nel 2014, cinque periodi d’imposta consecutivi;
ovvero
- indifferentemente e consecutivamente, dichiarazioni in perdita per dueo quattro periodi d’imposta e una dichiarazione con un reddito inferiore al reddito minimo;
sono considerate di comodo a decorrere dal successivo quarto/sesto periodo d’imposta.
Ai sensi dell’articolo 1, comma 1, L. 233/1990, l’onere contributivo dovuto dagli iscritti alle Gestioni artigiani e commercianti “è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”. Al riguardo, nella sentenza in commento, si legge che occorre “aver riguardo ad un imponibile non limitato al reddito derivante dalla sola attività che da titolo all’iscrizione alla Gestione, ma, potenzialmente, esteso a tutti i redditi d’impresa denunciati dal soggetto. Ma proprio in relazione alla sostanziale indifferenza rispetto alle fonti di reddito da prendere in considerazione, si impone la particolare attenzione al concetto di “reddito” quale sinonimo di guadagno”.
A detta del giudice, il reddito minimo, invece, per definizione, è un reddito presunto, fittizio, elaborato a fini “sanzionatori”, non estensibile, pertanto, a fini diversi, e, nello specifico, a fini contributivi.
D’altro canto, la previsione contenuta nell’articolo 3-bis D.L. 384/1992, secondo cui “l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’articolo 1 della legge 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini Irpef per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono”, non può prescindere dallo stesso concetto di reddito quale effettiva posta attiva.
In conclusione, quindi, dovendo ritenersi illegittima la pura e semplice trasposizione dei fini “erariali” o “tributari” nei fini “contributivi”, il reddito minimo non può essere assoggettato alla contribuzione previdenziale.