Regime Iva delle esportazioni differite
di Marco PeiroloNell’ambito dei rapporti commerciali con l’estero, assumono rilevanza i trasferimenti di beni al di fuori del territorio comunitario con passaggio della proprietà differito a un momento successivo rispetto a quello dell’invio materiale dei beni.
Nei rapporti con clienti di Paesi extra UE, il regime di non imponibilità proprio delle cessioni all’esportazione si applica anche quando i beni sono inviati all’estero in regime “franco valuta”, per essere successivamente ceduti al cliente non residente in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto ab origine dalle parti.
Un’altra tipologia di esportazione, anch’essa differita, è quella dipendente dall’accordo di call-off stock, con il quale la proprietà dei beni si trasferisce in capo al cliente solo nel momento del prelievo dal deposito, con il conseguente obbligo, da parte del fornitore, di emettere la fattura di vendita con applicazione del regime di non imponibilità Iva.
Esportazioni “franco valuta”
Al di fuori dell’accordo di call-off stock (consignment stock, secondo l’espressione utilizzata dall’Amministrazione finanziaria), la cui disamina avverrà nel prosieguo, l’articolo 8, comma 1, D.P.R. 633/1972, nel prevedere che costituiscono cessioni all’esportazione, non imponibili, “le cessioni, anche tramite commissionari, eseguite mediante trasporto o spedizione di beni fuori del territorio della Comunità economica europea, a cura o a nome dei cedenti …”, deve essere interpretato nel senso che, per ritenere sussistente una cessione all’esportazione non imponibile, è indispensabile non solo la materiale uscita dei beni dal territorio comunitario, ma anche il verificarsi di un trasferimento del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento, oltre, naturalmente, al pagamento del corrispettivo
Questa conclusione, sostenuta dall’Amministrazione finanziaria nella circolare n. 156/1999, è stata confermata dalla risoluzione n. 306/E/2008, in relazione a una fattispecie d’invio dei beni all’estero senza che fosse in programma alcuna cessione. In tale evenienza, infatti, l’invio dei beni al di fuori dell’Unione Europea costituisce una mera esportazione “franco valuta”, in cui manca uno degli elementi caratterizzanti le “cessioni all’esportazione” di cui all’articolo 8, D.P.R. 633/1972, cioè il trasferimento del diritto di proprietà dei beni stessi.
In linea di principio, pertanto, l’esportazione “franco valuta” non beneficia del trattamento di non imponibilità in esame, ma l’eccezione è costituita da quelle operazioni che, pur non essendo riconducibili allo schema del contratto di call-off stock, siano – sul piano degli effetti – molto simili a quest’ultima fattispecie.
Nello stesso senso, si pone la recente risposta a interpello n. 34/E/2025, relativa a un’esportazione “franco valuta”, ossia un’operazione mediante la quale un soggetto passivo stabilito nel territorio dello Stato trasferisce propri beni dall’Italia verso uno Stato extra UE, in assenza di un passaggio di proprietà degli stessi e, dunque, senza percepire alcun corrispettivo a tale titolo. In sostanza, una volta a destinazione, i beni continuano a essere di proprietà del soggetto passivo italiano, presupposto che impedisce di considerare l’operazione come una cessione all’esportazione nei termini descritti dall’articolo 8, D.P.R. 633/1972.
L’Agenzia delle entrate ha escluso che la cessione possa beneficiare del titolo di non imponibilità, in considerazione della finalità dell’invio dei beni in territorio estero, vale a dire la loro vendita.
Qualche spiraglio, al riguardo, era lecito nutrirlo dopo che, con la risposta a interpello n. 238/E/2020, l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto applicabile la non imponibilità anche in relazione ai beni trasferiti in un magazzino di proprietà di terzi situato in uno Stato extra UE, in attesa di essere venduti a clienti non ancora individuati e che, quindi, non si erano impegnati al relativo acquisto.
Nella fattispecie oggetto della risposta a interpello n. 34/E/2025, oltre a non essere stato stipulato un accordo di call-off stock, non risulta neppure esistente, in capo all’istante, l’obbligo di vendere i beni ai singoli clienti, con la conseguenza che l’eventuale cessione delle merci esportate durante la loro permanenza all’estero non assume rilevanza ai fini Iva per difetto del requisito della territorialità, non essendo più i beni nel territorio dello Stato, ex articolo 7-bis, D.P.R. 633/1972.
In definitiva, l’operazione in esame non presenta i caratteri propri di una cessione all’esportazione, per cui, all’atto della cessione nei confronti dei clienti americani, l’istante è tenuto a emettere fattura non soggetta a Iva ai sensi dell’articolo 21, comma 6-bis, lettera b), D.P.R. 633/1972.
Il nuovo intervento dell’Agenzia delle entrate è significativo, perché – come sopra anticipato – implica che gli operatori non possono applicare il titolo di non imponibilità ai beni ceduti in territorio estero soltanto in considerazione della finalità dell’operazione che ha avuto origine con l’esportazione doganale, volta alla successiva vendita dei beni.
Accordo/procedura | Riflessi ai fini Iva |
Call-off stock | All’atto dell’espletamento delle formalità doganali di esportazione, si è in presenza di una cessione a titolo oneroso delle merci in uscita; cessione che, in virtù delle pattuizioni di cui al contratto in esame, è realizzata secondo un procedimento che si perfezionerà solo in un secondo momento, cioè all’atto del prelievo dal deposito. In questa ipotesi, con il prelievo, si dà esecuzione alla compravendita da parte dell’acquirente al quale i beni sono stati inviati e messi a sua disposizione dal venditore; si realizzano, pertanto, i presupposti per inquadrare l’operazione nell’ambito delle cessioni all’esportazione non imponibili Iva ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972. |
Esportazione “franco valuta” | Quando i beni siano inviati al di fuori dell’Unione Europea in regime “franco valuta”, cioè senza trasferimento della proprietà, per essere successivamente ceduti al cliente non residente in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto ab origine dalle parti, nel presupposto che il fornitore italiano possa considerarsi, al momento del trasporto/spedizione dei beni in territorio estero, obbligato a vendere al cliente non residente i suddetti beni, può ritenersi che, con il prelievo della merce dal deposito per la consegna al cliente, si dà esecuzione alla compravendita e si realizzano i presupposti per inquadrare l’operazione nell’ambito delle cessioni all’esportazione non imponibili Iva ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972. |
L’ipotesi considerata è quella che ricorre nel caso affrontato dalla risoluzione n. 94/E/2013, vale a dire quando i beni siano inviati al di fuori dell’Unione Europea, in regime “franco valuta”, per essere successivamente ceduti al cliente non residente, in virtù dell’impegno contrattualmente vincolante assunto ab origine dalle parti.
La merce:
- ancorché stoccata in un deposito di proprietà dell’operatore nazionale o di cui, comunque, quest’ultimo ha la disponibilità, in virtù, ad esempio, del contratto di locazione appositamente stipulato;
- risulta vincolata, sin dall’inizio, all’esclusivo trasferimento in proprietà del cliente estero in relazione alle sue esigenze produttive/commerciali.
Nel presupposto, quindi, che il fornitore italiano possa considerarsi, al momento del trasporto/spedizione dei beni fuori dall’Unione Europea, obbligato a vendere al cliente estero i suddetti beni, può ritenersi che:
- con il prelievo della merce dal deposito per la consegna al cliente estero si dà esecuzione alla compravendita e si realizzano i presupposti per inquadrare l’operazione come cessione all’esportazione non imponibile ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972; e
- conseguentemente, il plafond di cui all’articolo 8, comma 2, D.P.R. 633/1972, si costituisce solo nel momento e nella misura in cui la merce risulta prelevata dall’acquirente e debitamente fatturata dal fornitore.
Questa conclusione presuppone, come già affermato in giurisprudenza[1], che sussista il carattere definitivo dell’operazione, sicché risulta essenziale, al fine di evitare iniziative fraudolente, la prova – il cui onere grava sul contribuente – che l’operazione, fin dalla sua origine, e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero.
La prova richiesta ricalca quella che la stessa giurisprudenza di legittimità ha previsto in relazione alla prova del trasporto/spedizione dei beni nell’ambito delle triangolazioni all’esportazione.
È stato, infatti, affermato che, affinché un’operazione triangolare possa qualificarsi come cessione non imponibile, l’espressione letterale “a cura” del cedente, contenuta nell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972, deve essere interpretata in relazione allo scopo della norma, che è quello di evitare operazioni fraudolente, quali si verificherebbero se il cessionario nazionale potesse autonomamente (al di fuori, cioè, di un preventivo regolamento contrattuale con il cedente) decidere di inviare i beni in altro Stato membro o al di fuori dell’Unione Europea.
Pertanto, non è necessario che il trasporto/spedizione della merce avvenga in esecuzione di un contratto concluso direttamente dal cedente o in rappresentanza di quest’ultimo, essendo essenziale solo che vi sia la prova che l’operazione, fin dalla sua origine e nella sua rappresentazione documentale, sia stata voluta, secondo la comune volontà degli originali contraenti, come cessione nazionale in vista del trasporto/spedizione al cessionario residente all’estero[2].
Riguardo alla prova della volontà delle parti di inviare la merce all’estero, ai fini della successiva vendita, la risoluzione n. 94/E/2013 considera tuttora valide le indicazioni fornite con la risoluzione n. 520657/1975, secondo cui il collegamento tra i beni inviati all’estero in regime “franco valuta” (per specie, qualità e quantità) e quelli ceduti secondo gli accordi contrattuali può essere dimostrato mediante:
- l’annotazione in un apposito registro, tenuto ai sensi dell’articolo 39, D.P.R. 633/1972, delle spedizioni dei beni all’estero, riportando per ciascuna annotazione gli estremi del documento di esportazione;
- l’indicazione nella fattura di vendita, emessa al momento della consegna dei beni all’acquirente, della corrispondente annotazione del registro relativa ai medesimi prodotti.
Orientamento della Corte di Cassazione
Come anticipato, la soluzione fornita dalla risoluzione n. 94/E/2013 trova conferma nella posizione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha escluso che, per applicare la non imponibilità di cui all’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972, sia indispensabile che l’effetto traslativo della proprietà sia contestuale all’invio dei beni in territorio extra comunitario.
Dal citato dato normativo, si desume che la cessione all’esportazione si configura in presenza di una transazione caratterizzata dal concorso di 2 distinti requisiti:
- il trasporto/spedizione dei beni fuori dall’Unione Europea, comprovato da un’apposita documentazione; e
- il trasferimento della proprietà o di altro diritto reale sui beni medesimi.
Non si riscontra, tuttavia, né a livello normativo, né sul piano sistematico, alcuna esigenza che imponga una sequenza temporale vincolata degli effetti della transazione, nella specie l’anteriorità dell’effetto traslativo del diritto reale rispetto a quello dell’uscita della merce dal territorio comunitario.
In particolare:
- sul piano normativo, assume rilevanza la nozione di “operazione”, per cui l’accezione “cessione all’esportazione”, utilizzata dall’articolo 8, D.P.R. 633/1972, indica che è richiesto, ai fini della non imponibilità, un vincolo finalistico tra il trasferimento della proprietà e l’esportazione, ma non anche un’obbligata successione temporale tra i 2 termini dell’operazione;
- sul piano sistematico, il principio della tassazione dei beni nel luogo di consumo presuppone solo il carattere definitivo dell’operazione, sicché ciò che risulta essenziale – e che la norma persegue al fine di evitare iniziative fraudolente – è la prova (il cui onere grava sul contribuente) che l’operazione, fin dalla sua origine e nella relativa rappresentazione documentale, sia stata concepita in vista del definitivo trasferimento e cessione della merce all’estero.
In definitiva, le sentenze n. 5894/2013 e n. 23588/2012 della Corte di Cassazione escludono che il beneficio della non imponibilità previsto per le cessioni all’esportazione possa essere negato nell’esclusiva considerazione che il trasferimento della proprietà relativo ai beni esportati si è verificato in un momento successivo a quello del relativo invio dei beni in territorio extra comunitario.
Orientamento dell’Aidc
Tale conclusione, a sua volta, si basa sulle indicazioni contenute nella norma di comportamento n. 161 dell’Aidc (Associazione italiana dottori commercialisti).
L’Aidc rammenta che l’articolo 8, § 1, lettera a), VI Direttiva CEE (ora articolo 32, Direttiva 2006/112/CE) qualifica la cessione all’esportazione in funzione di 2 elementi distinti, costituiti:
- dalla consegna o spedizione dei beni; e
- dall’atto negoziale in base al quale avviene il trasferimento della proprietà, che può essere immediato o differito.
L’operazione e, quindi, il regime di non imponibilità, non dipende dall’ordine cronologico in cui i suddetti elementi si verificano, in quanto la momentanea assenza di uno di essi si pone esclusivamente come condizione di sospensione degli effetti della cessione, espressamente prevista – nell’ordinamento interno – dall’articolo 6, commi 1 e 2, D.P.R. 633/1972.
Secondo la norma di comportamento, affinché le cessioni all’esportazione, il cui effetto traslativo sia posticipato rispetto all’invio dei beni all’estero, siano rilevanti ai fini del plafond, è indispensabile che l’intervallo temporale tra il trasporto/spedizione e la cessione successivamente eseguita trovi giustificazione nell’intenzione dell’operatore nazionale di vendere i beni sin dal momento del loro invio in territorio extra comunitario.
Esportazioni in regime di call-off stock
Con il contratto di call-off stock, che la prassi amministrativa italiana indica come consignment stock, il destinatario dei beni ha la possibilità di differire, rispetto al momento di arrivo dei beni nel proprio Stato membro, l’acquisto della proprietà degli stessi, rinviando anche, fino al momento del loro prelievo dal deposito, il pagamento del prezzo di acquisto convenuto.
Lo schema del call-off stock può essere utilizzato anche nei rapporti con soggetti extra UE, dovendosi, pertanto, distinguere a seconda che l’operatore nazionale agisca in veste di fornitore o di cliente[3].
Operatore nazionale in veste di fornitore
Nella prima ipotesi, occorre stabilire se sia possibile considerare l’operazione come una cessione all’esportazione, in quanto tale non imponibile ai fini Iva, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972, con la conseguente costituzione del plafond per l’acquisto o l’importazione di beni e servizi senza applicazione dell’imposta.
L’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 58/E/2005, ha chiarito che analoghe conclusioni a quelle indicate dalla risoluzione n. 235/1996, valgono nel caso in cui i beni siano inviati a destinazione di un acquirente stabilito in un Paese extra UE, presso un deposito del medesimo o di un terzo cui quest’ultimo possa accedere.
Nella risoluzione n. 235/1996, è stato precisato che, in considerazione della particolare clausola utilizzata per la vendita delle merci, che comporta uno stoccaggio presso i locali dell’acquirente il quale ha l’esclusiva dell’acquisto, si è in presenza di un’unica operazione, cioè la cessione intracomunitaria, che si considera effettuata non all’atto dell’invio dei beni nel territorio di altro Stato membro, bensì nel momento in cui si produce l’effetto traslativo della proprietà per l’acquirente, vale a dire all’atto del prelievo dei beni dal deposito a opera di quest’ultimo[4].
È in relazione a tale momento e, in ogni caso, non oltre un anno dalla consegna o spedizione dei beni, che il fornitore nazionale provvederà a emettere fattura non imponibile Iva ai sensi dell’articolo 41, comma 1, lettera a), D.L. 331/1993, e a presentare il modello Intra 1-bis.
Naturale conseguenza di questa impostazione è che, all’atto del verificarsi del prelievo, e quindi della cessione intracomunitaria, verrà a costituirsi il plafond per l’acquisto o l’importazione di beni e servizi senza applicazione dell’imposta.
Come precisato dalla risoluzione n. 235/1996, la movimentazione intracomunitaria dei beni in esecuzione dell’accordo di consignment stock, che possono essere accompagnati da un documento di trasporto, deve risultare dall’annotazione nel registro di cui all’articolo 50, comma 5, D.L. 331/1993[5].
All’atto dell’espletamento delle formalità doganali di esportazione si è, infatti, in presenza di una cessione a titolo oneroso dei beni; la stessa, tuttavia, in virtù del contratto di call-off stock, si realizza secondo un procedimento che si perfezionerà solo in un secondo momento, cioè al momento del prelievo della merce dal deposito.
In questa ipotesi, con il prelievo, si dà esecuzione alla compravendita da parte dell’acquirente cui i beni sono stati inviati e messi a sua disposizione dal venditore, per cui si realizzano i presupposti per inquadrare l’operazione come cessione all’esportazione non imponibile ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), D.P.R. 633/1972; naturalmente, il plafond si costituirà solo nel momento e nella misura in cui i beni risultino prelevati dall’acquirente e debitamente fatturati dal fornitore italiano.
Fasi in cui si articola l’operazione |
L’acquirente invia un ordine di acquisto al fornitore che consegna i beni all’estero presso un deposito del soggetto acquirente o, a seconda dei casi, di un soggetto terzo con accesso esclusivo da parte dell’acquirente. |
L’esportazione delle merci spedite risulta dall’emissione della relativa bolletta doganale corredata da una fattura pro forma. |
All’atto del prelievo, l’acquirente emette un documento attestante le merci ritirate ai fini della definizione finanziaria dell’operazione. |
Il fornitore emette una fattura, in relazione ai beni prelevati, contenente le indicazioni dell’ordine, della bolletta doganale, della fattura pro forma e del documento rilasciato dall’acquirente al momento del prelievo. |
Adempimenti del fornitore italiano | |
Adempimenti conseguenti all’invio dei beni in un Paese extra UE | Emissione della bolletta doganale di esportazione corredata da una fattura pro forma. |
Adempimenti conseguenti al prelievo dei beni | Emissione, rispetto al momento del prelievo, della fattura di vendita con l’annotazione del titolo di non imponibilità e con l’eventuale indicazione della relativa norma (comunitaria o nazionale). |
Annotazione della fattura di vendita nel registro delle fatture emesse (di cui all’articolo 23, D.P.R. 633/1972) secondo l’ordine della numerazione ed entro 15 giorni. |
Le considerazioni esposte non possono essere formulate in mancanza di un contratto di call-off stock, ovvero in presenza di una fattispecie in cui l’operatore nazionale invia i beni verso un proprio deposito situato in un Paese extra UE per la successiva rivendita; in tal caso, infatti, all’atto dell’esportazione della merce, non si verifica alcuna cessione a titolo oneroso e la rivendita effettuata nel Paese terzo non rileva agli effetti dell’Iva per carenza del presupposto territoriale[6].
Operatore nazionale in veste di cliente
Laddove, invece, il call-off stock sia stipulato dall’operatore nazionale in veste di cliente, la risoluzione n. 346/E/2008 ha richiamato le considerazioni elaborate nella risoluzione n. 96/E/ 2007, con riferimento al contratto di “prestito d’uso” di merce importata.
Nel richiamato documento di prassi è stato precisato che, per i beni importati, anche se non a titolo definitivo, l’Iva dev’essere accertata, liquidata e riscossa in dogana all’atto della loro introduzione nel territorio nazionale. Inoltre, la circostanza che le disposizioni in materia doganale consentono a soggetti diversi dal proprietario effettivo delle merci di operare in dogana in nome proprio e per conto del proprietario consente di affermare che la proprietà dei beni importati non è condizione necessaria per esercitare la detrazione dell’Iva pagata, essendo, invece, richiesto che i beni o servizi acquisiti presentino un nesso immediato e diretto con l’oggetto dell’attività d’impresa, ossia siano a essa inerenti.
Anche nel caso in esame, sebbene la merce sia importata in virtù di un contratto di call-off stock, in base al quale l’acquirente italiano acquisterà la proprietà dei beni solo al momento del loro prelievo dal deposito, e quindi in un momento successivo rispetto al transito delle merci in dogana, il cliente italiano ha:
− da un lato, l’obbligo di assolvere l’Iva in dogana; e
− dall’altro, il diritto di esercitare la detrazione dell’Iva medesima ai sensi dell’articolo 19, D.P.R. 633/1972, previa annotazione della bolletta doganale nel registro degli acquisti.
All’atto del prelievo delle merci dal deposito in Italia, l’operazione dovrà essere documentata dal fornitore extra comunitario con il titolo certificativo previsto nel proprio Paese, mentre il cliente italiano emetterà autofattura, nella quale indicherà:
− l’ammontare del corrispettivo corrisposto e dell’Iva relativa;
− gli estremi della bolletta doganale con cui i beni sono stati introdotti e quelli di registrazione nel registro degli acquisti.
Detta autofattura andrà annotata nel registro delle vendite e degli acquisti in una separata colonna appositamente contrassegnata, assolvendo l’unica funzione di documentazione dell’operazione di acquisto ai fini delle imposte sui redditi, posto che – ai fini Iva – l’imposta è già stata assolta e annotata all’atto dell’importazione.
Tuttavia, qualora il prezzo corrisposto al momento dell’acquisto definitivo sia superiore a quello indicato in dogana al momento dell’introduzione delle merci nel territorio dello Stato, l’importo medesimo, da documentare e annotare integralmente nel registro delle fatture emesse e delle fatture d’acquisto, concorrerà alla liquidazione solo per la differenza corrisposta.
Diversamente, nell’ipotesi di restituzione dei beni ricevuti in deposito al fornitore, la risoluzione n. 346/E/2008 ha affermato che l’operazione dovrà essere considerata una cessione all’esportazione e, pertanto, dovrà essere documentata con fattura non imponibile ai sensi dell’articolo 8, D.P.R. 633/1972. Si tratta, invero, di un’interpretazione opinabile, in considerazione del fatto che, come più volte sostenuto dalla stessa Amministrazione finanziaria, agli effetti dell’imposta, assume rilevanza il rapporto civilistico instaurato tra i 2 soggetti interessati; pertanto, perché si configuri una cessione all’esportazione, è indispensabile non solo la materiale uscita dei beni dal territorio comunitario, ma anche il verificarsi di un trasferimento del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento[7].
Infine, deve escludersi la possibilità di annotare le movimentazioni dei predetti beni in conto deposito nel registro di cui all’articolo 50, comma 5, D.L. 331/1993, al fine di vincere le presunzioni di acquisto e di cessione. Tale registro, infatti, è destinato ad accogliere le movimentazioni in entrata e in uscita dei beni che vengono trasferiti da un Paese membro all’altro, a titolo non traslativo della proprietà; si tratta, pertanto, di un registro specifico, che non può essere utilizzato per annotare beni diversi da quelli comunitari.
Nel caso di specie, secondo la risoluzione n. 346/E/2008, la natura di “bene di terzi in conto deposito” deve risultare dalla bolletta d’importazione, da annotare nel registro degli acquisti al fine di esercitare il diritto alla detrazione, fermo restando che il cliente italiano può istituire un registro di “carico e scarico” della merce movimentata nel deposito a seguito del contratto di call-off stock.
Adempimenti del cliente italiano | |
Adempimenti conseguenti al ricevimento dei beni provenienti da un Paese extra UE | · bolletta doganale d’importazione annotata nel registro degli acquisti; e, eventualmente; · iscrizione nel registro di “carico e scarico” dei beni ricevuti dal fornitore extra comunitario. |
Adempimenti conseguenti al prelievo dei beni | Cancellazione dal registro di “carico e scarico” dei beni oggetto di prelievo[8]. |
Emissione dell’autofattura rispetto al momento del prelievo. | |
Annotazione dell’autofattura, distintamente: · nel registro delle fatture emesse, entro 15 giorni e con riferimento alla data di emissione; · nel registro degli acquisti. | |
Adempimenti conseguenti alla restituzione dei beni | Emissione della bolletta doganale di esportazione. |
Cancellazione dal registro di “carico e scarico” dei beni oggetto di restituzione[9]. | |
Emissione, rispetto al momento del prelievo, della fattura di vendita con l’annotazione del titolo di non imponibilità e con l’eventuale indicazione della relativa norma (comunitaria o nazionale). | |
Annotazione della fattura di vendita nel registro delle fatture emesse (di cui all’articolo 23, D.P.R. 633/1972) secondo l’ordine della numerazione ed entro 15 giorni. |
[1] Cfr. Cassazione n. 5894/2013 e n. 23588/2012.
[2] Cfr. Cassazione n. 14405/2014, n. 23735/2013, n. 13331/2013, n. 14186/2013, n. 6898/2011, n. 24964/2010, e n. 4098/2000.
[3] Per quanto, invece, riguarda i profili Iva del call-off stock nei rapporti intracomunitari, dal 1° gennaio 2020 occorre avere riguardo alla disciplina contenuta nell’articolo 17-bis, Direttiva 2006/112/CE, introdotto dalla Direttiva 2018/1910/UE, recepito in Italia nell’articolo 41-bis, D.L. 331/1993, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera c), D.Lgs. 192/2021, con effetto dal 1° dicembre 2021.
[4] Per le cessioni intracomunitarie, la sospensione d’imposta, fino al 31 dicembre 2012, risultava giustificata dall’articolo 6, comma 1, D.P.R. 633/1972, applicabile in forza del rinvio generale alle disposizioni del D.P.R. 633/1972 contenuto nell’articolo 56, D.L. 331/1993. In base al citato articolo 6, comma 1, D.P.R. 633/1972: “le cessioni i cui effetti traslativi o costitutivi si producono posteriormente (…) si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti e comunque, se riguardano beni mobili, dopo il decorso di un anno dalla consegna o spedizione”. A seguito delle novità introdotte, con effetto dal 1° gennaio 2013, dall’articolo 1, L. 228/2012 (c.d. Legge di Bilancio 2013), la sospensione d’imposta è, invece, giustificata dall’articolo 39, comma 1, D.L. 331/1993, che – con specifico riguardo alle cessioni intracomunitarie – ha stabilito che, “se gli effetti traslativi o costitutivi si producono in un momento successivo alla consegna, le operazioni si considerano effettuate nel momento in cui si producono tali effetti e comunque dopo il decorso di un anno dalla consegna” (si veda la circolare n. 12/E/2013, § 7.2).
[5] In base a tale disposizione: “i movimenti relativi a beni spediti in altro Stato della Comunità economica europea o da questo provenienti in base ad uno dei titoli non traslativi di cui all’art. 38, comma 5, lettera a), devono essere annotati in apposito registro …”. Il rinvio ai suddetti “titoli non traslativi” potrebbe portare a ritenere che l’indicazione dell’Amministrazione finanziaria alle movimentazioni, a titolo non traslativo della proprietà, effettuate in dipendenza del contratto di consignment stock, sia priva di “copertura normativa”. È dato, tuttavia, osservare che l’articolo 39, comma 1, D.L. 331/1993, per le operazioni con effetto traslativo o costitutivo differito, subordina la sospensione d’imposta alla condizione che sia tenuto il registro in esame.
[6] Cfr. articolo 7-bis, comma 1, D.P.R. 633/1972.
[7] Si veda, ad esempio, la circolare n. 156/1999.
[8] In caso di istituzione e tenuta del registro.
[9] In caso di istituzione e tenuta del registro.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Iva in pratica”.





