Regime pex applicabile anche dai soggetti non residenti e senza stabile organizzazione in Italia
di Domenico SantoroGianluca CristoforiCon il presente breve contributo si ripercorrono le conclusioni a cui è giunta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21261/2023, in merito alla potenziale lesione dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, previsti dagli articoli 49 e 63, Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue), derivante dalla disparità di trattamento sussistente tra soggetti residenti e non residenti, purché dotati di stabile organizzazione in Italia, ai quali è consentito invocare l’applicazione del regime della c.d. participation exemption, disciplinato nell’articolo 87, Tuir (nel prosieguo, anche più semplicemente “pex”), per il concorso alla formazione del reddito imponibile delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni societarie, e soggetti non residenti, tuttavia privi di stabile organizzazione in Italia, ai quali, invece, al ricorrere delle medesime condizioni e dei medesimi presupposti, non sarebbe consentita l’applicazione di detto regime.
Premessa
La controversia da cui trae origine la pronuncia giurisprudenziale in commento afferisce l’impugnazione, da parte di una società non residente (con sede in Francia), del silenzio rifiuto formatosi a fronte dell’istanza di rimborso della maggiore Ires versata per il periodo d’imposta 2013, per effetto della mancata applicazione del regime pex alla plusvalenza realizzata a seguito della cessione della partecipazione detenuta in una società di capitali con sede in Italia.
L’istanza di rimborso, nel caso di specie, era stata presentata sul presupposto che la disciplina italiana che regola l’imposizione – in capo a soggetti non residenti e privi di stabile organizzazione in Italia – delle plusvalenze derivanti dall’alienazione di partecipazioni societarie risulti lesiva dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, previsti dagli articoli 49 e 63, Tfue.
A parere del contribuente, la lesione di tali principi deriva dall’evidente disparità di trattamento sussistente tra:
- i soggetti residenti e i soggetti non residenti, dotati di stabile organizzazione in Italia, da un lato, per i quali, al ricorrere dei requisiti prescritti dall’articolo 87, Tuir, la plusvalenza realizzata è esente nella misura del 95% del relativo ammontare. Detto in altri termini, nel periodo d’imposta oggetto della controversia, per tali soggetti il gravame impositivo si era attestato nella misura dell’1,375% dell’ammontare della plusvalenza realizzata (ovvero il 27,5% del 5%);
- i soggetti non residenti, tuttavia privi di stabile organizzazione in Italia, dall’altro lato, per i quali, invece, al ricorrere delle medesime condizioni e dei medesimi presupposti, il regime impositivo è regolato dal combinato disposto degli articoli 152, comma 2 e 68, comma 3, Tuir, nella formulazione vigente ratione temporis, a norma dei quali:
- in mancanza di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, i proventi che concorrono a formare il reddito complessivo sono determinati secondo le disposizioni relative alle singole categorie reddituali nelle quali rientrano (c.d. trattamento “isolato”);
- detti componenti positivi sono, quindi, da determinare secondo le disposizioni che regolano il regime dei c.d. “redditi diversi”, cosicché la plusvalenza risultava al tempo esente nella misura del 50,28% del relativo ammontare.
Detto in altri termini, nel periodo d’imposta oggetto della controversia, per tali soggetti il gravame impositivo si attestava nella misura del 13,673% dell’ammontare della plusvalenza realizzata (ovvero il 27,5% del 49,72%).
A parere del contribuente, tale disparità di trattamento, lesiva dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, è analoga alla fattispecie già esaminata dalla Corte di Giustizia UE nella causa C-540/07 del 19 novembre 2009, in relazione al regime impositivo dei dividendi pagati a società non residenti in Italia. Si ricorda, infatti, che, con la sentenza causa C-540/07, la Corte di Giustizia UE ha ritenuto incompatibile con i principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali la discriminazione allora sussistente tra:
- i soggetti residenti in Italia, da un lato, per i quali i dividendi distribuiti da società di capitali con sede in Italia concorrevano alla formazione del reddito imponibile limitatamente al 5% del relativo ammontare, cosicché il gravame impositivo si attestava nella misura dell’1,375% del relativo ammontare (ovvero il 27,5% del 5%);
- i soggetti residenti nell’Unione Europea o nello Spazio economico europeo, dall’altro lato, per i quali i dividendi distribuiti da società di capitali con sede in Italia scontavano una ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 27% del relativo ammontare, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 27, comma 3, D.P.R. 600/1973, nella formulazione vigente ratione temporis.
Si ricorda, inoltre, che tale riscontrata discriminazione tra soggetti, lesiva dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, aveva reso necessario l’intervento del Legislatore, il quale ha quindi introdotto il comma 3-ter all’articolo 27, D.P.R. 600/1973, prevedendo l’applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta con aliquota ridotta dell’1,375% sugli utili corrisposti alle società e agli enti soggetti a un’imposta sul reddito delle società negli Stati membri dell’Unione Europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo See, così da “…livellare il carico impositivo gravante sui dividendi corrisposti a soggetti residenti nella UE e nel SEE a quello gravante sui dividendi corrisposti a soggetti residenti”.
Il confronto tra i regimi interni applicabili alla fattispecie
Com’è noto, per le società residenti in Italia, tra le disposizioni volte a regolamentare la determinazione della base imponibile rilevante ai fini dell’Ires, l’articolo 87, Tuir disciplina il regime della c.d. participation exemption, applicabile alle plusvalenze realizzate da tali soggetti su azioni o quote di partecipazione detenute in società ed enti “trasparenti”, di cui all’articolo 5, Tuir, e in società di cui all’articolo 73, Tuir, le quali non concorrono alla formazione del reddito – in quanto esenti – nella misura del 95% del relativo ammontare, a condizione che siano rispettati congiuntamente 4 requisiti, ovverosia, in estrema sintesi e in prima approssimazione:
a) l’ininterrotto possesso della partecipazione ceduta dal primo giorno del dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione;
b) la classificazione della partecipazione ceduta nella categoria delle “immobilizzazioni finanziarie” nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso;
c) la residenza fiscale della società partecipata in uno Stato o territorio diverso da quelli a regime fiscale privilegiato;
d) l’esercizio di un’impresa commerciale, da parte della società partecipata, la cui effettività è da verificare dal punto di vista sostanziale e non meramente formale.
Limitatamente a tali componenti di reddito, le società residenti in Italia scontavano un gravame impositivo dell’1,375% del relativo ammontare, ovverosia l’ammontare che risulta applicando l’aliquota Ires al tempo vigente (27,5%) alla quota imponibile di detta plusvalenza (5%).
Tale regime, al ricorrere dei succitati requisiti concorrenti, trova applicazione anche in caso di realizzo di plusvalenze su azioni o quote di partecipazioni in società ed enti “trasparenti”, di cui all’articolo 5, Tuir, e nelle società di cui all’articolo 73, Tuir, da parte di società non residenti, purché aventi stabile organizzazione nel territorio dello Stato, stante l’espresso richiamo contenuto nel comma 1 dell’articolo 152, Tuir pro tempore in vigore.
Per le società non residenti e senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato, l’articolo 152, comma 2, Tuir pro tempore in vigore stabilisce, invece, salvo specifiche eccezioni, che il reddito complessivo è rappresentato dalla sommatoria dei redditi prodotti in Italia, i quali concorrono alla formazione del reddito in ragione delle disposizioni contenute nel Titolo I, Tuir, ovverosia facendo ricorso alle medesime categorie reddituali e regole applicative previste per la determinazione del reddito imponibile ai fini dell’Irpef. Trova, quindi, applicazione, nel caso di specie, quanto previsto dagli articoli 67, comma 1, lettera c) e 68, comma 3, Tuir pro tempore in vigore, a norma dei quali le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di partecipazioni qualificate concorrono alla formazione del reddito imponibile in misura pari al 49,72% del relativo ammontare.
Sul punto, merita osservare che, nella maggior parte dei casi, in concreto, la questione non si pone affatto, considerato che l’esercizio della potestà impositiva dell’Italia è precluso dalle disposizioni contenute nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni applicabili ai casi di interesse, laddove queste siano conformi all’articolo 13, §5, modello di Convenzione Ocse, il quale prevede la tassazione esclusiva della plusvalenza derivante dalla cessione di una partecipazione sociale nello Stato di residenza del soggetto alienante. La questione, invece, residua nei casi in cui non è applicabile una Convenzione contro le doppie imposizioni, oppure nei casi in cui la Convenzione contro le doppie imposizioni consente la tassazione concorrente dello Stato della fonte, come accade, per esempio, nei casi trattati dalle Convenzioni stipulate dall’Italia con Australia, Brasile, Cina, Corea del Sud, Francia e Israele.
Con riguardo al caso oggetto della pronuncia giurisprudenziale in commento (Francia), occorre osservare che:
- ai sensi dell’articolo 23, comma 1, lettera f), Tuir, si considerano prodotti nel territorio dello Stato “…i redditi diversi derivanti da attività svolte nel territorio dello Stato e da beni che si trovano nel territorio stesso, nonché le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti, con esclusione: 1) delle plusvalenze di cui alla lettera c-bis) del comma 1, dell’articolo 67, derivanti da cessione a titolo oneroso di partecipazioni in società residenti negoziate in mercati regolamentati, ovunque detenute…”;
- ai sensi dell’articolo 13, §4, Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia, “Gli utili derivanti dall’alienazione di ogni altro bene diverso da quelli menzionati ai paragrafi 1, 2 e 3 sono imponibili soltanto nello Stato di cui l’alienante è residente”; tuttavia, il Protocollo aggiunto alla Convenzione, al § 8, lettera b), prevede che, “Nonostante le disposizioni del paragrafo 4 dell’articolo 13, gli utili derivanti dall’alienazione di azioni o di quote diverse da quelle considerate alla lettera a) e facenti parte di una partecipazione importante nel capitale di una società residente di uno Stato, sono imponibili in detto Stato, secondo le disposizioni della sua legislazione interna. Si considera che esista una partecipazione importante se il cedente, da solo o con persone associate o collegate, dispone direttamente o indirettamente di azioni o di quote che danno complessivamente diritto ad almeno il 25% degli utili della società”.
Le conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione
Da quanto si apprende dalla lettura della succitata sentenza, con l’unico motivo di ricorso – poi respinto dalla Suprema Corte – l’Agenzia delle entrate aveva eccepito la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 63 e 65, Tfue, nonché degli articoli 13, §4, e 24, Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia, oltre che del §8 lettera b), Protocollo aggiunto alla predetta Convenzione.
A parere dell’Agenzia delle entrate, infatti, i principi statuiti dalla Corte di Giustizia UE nella causa C-540/07 del 19 novembre 2009, in merito al regime fiscale dei dividendi, non sarebbero estendibili al regime fiscale delle plusvalenze, tenuto conto che l’obiettivo del regime dei dividendi è quello di evitare il rischio di doppia imposizione economica, rischio che riguarda sia i soci residenti, sia quelli non residenti di società italiane, mentre l’obiettivo del regime pex previsto dall’articolo 87, Tuir non sarebbe esclusivamente quello di eliminare la doppia imposizione economica.
Argomenta sul punto, l’Agenzia delle entrate, rilevando che l’articolo 65, Tfue giustifica la presenza di disposizioni tributarie che operano una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il luogo di relativa residenza (§ 1) e che le disposizioni in tema di libertà di circolazione dei capitali non pregiudicano l’applicabilità di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con i trattati (§ 2), purché le misure e le procedure non costituiscano un “…mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata dal libero movimento dei capitali” (§ 3), escludendosi – in sintesi – una situazione di discriminazione ove il diverso trattamento sia accordato a situazioni non omologhe avendo riguardo all’obiettivo della norma controversa.
A parere dell’Agenzia delle entrate, inoltre, l’articolo 24, Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia prevede, per il caso di specie, uno specifico meccanismo per eliminare la doppia imposizione, mediante il riconoscimento di un credito d’imposta, scomputabile dall’imposta pagata in Francia sul medesimo reddito, pari all’ammontare dell’imposta pagata in Italia, fermo restando che detto credito non può eccedere l’ammontare dell’imposta assolta nell’altro Stato (ovverosia la Francia). Ne consegue che, in ragione del predetto credito d’imposta, un pregiudizio si sarebbe potuto verificare soltanto nel caso in cui la società avesse dimostrato di non aver potuto recuperare la maggiore imposizione scontata in Italia.
In relazione a tali aspetti, la Corte di Cassazione ha dapprima precisato che “…la ratio della disciplina che prevede l’esclusione da imposizione dei dividendi e quella della disciplina che prevede l’esenzione delle plusvalenze siano le medesime, e cioè la necessita di evitare una doppia imposizione economica del medesimo flusso reddituale”. È stato, infatti, osservato che “…la riforma fiscale di cui alla legge delega 80/2003 è caratterizzata da un nuovo assetto dei rapporti tra fiscalità delle società e fiscalità dei soci che si basa sul criterio di tassazione del reddito al momento della “produzione” e non all’atto della sua “distribuzione”. Pertanto, la disciplina della cessione delle partecipazioni è stata assimilata a quella dei dividendi societari, anche se a differenza dei primi, per i quali il beneficio è generalizzato, per le plusvalenze il beneficio (riconoscimento della pex nella misura del 95%) vale solo per le imprese “meritevoli”, in presenza delle quattro condizioni di cui all’articolo 87, Tuir Si è sottolineato, quindi, che è stata prevista l’irrilevanza reddituale dei dividendi distribuiti e l’esenzione delle plusvalenze realizzate in occasione della cessione delle partecipazioni, pur se in presenza di determinati e specifici requisiti. In tal modo sono parzialmente esclusi i dividendi distribuiti ai soci (nella misura del 95 per cento), così come sono considerate esenti le plusvalenze da cessioni di partecipazioni (nella misura del 95%), con indeducibilità delle minusvalenze e dei relativi costi”.
La Suprema Corte ha, quindi, concluso precisando che “…il legislatore italiano ha scelto di esercitare la sua competenza fiscale sulle plusvalenze realizzate da società stabilite in altri Stati membri e prive di stabile organizzazione in Italia ed in questo caso i non residenti privi di stabile organizzazione beneficiari di tali plusvalenze si trovano, di conseguenza, in una situazione analoga a quella dei residenti per quanto riguarda il rischio di doppia imposizione economica. Alla luce di tali considerazioni deve peraltro rilevarsi che l’assenza di una stabile organizzazione in Italia della società non residente (che, ai sensi dell’articolo 152 Tuir, determina il diverso trattamento fiscale delle plusvalenze) non appare un elemento in grado di rilevare ai fini in esame e tale da giustificare il diverso trattamento dei redditi da plusvalenza”.
Mutuando i precedenti giurisprudenziali riferiti al regime fiscale dei dividendi, inoltre, a parere della Corte di Cassazione, “…l’eliminazione della disparità di trattamento tra società percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane si pone su di un piano diverso rispetto a quello della eliminazione della doppia imposizione, tanto che la stipulazione, da parte dello Stato membro, di una convenzione finalizzata ad elidere, o quantomeno limitare, quest’ultimo fenomeno potrebbe lasciare integra la disparità di trattamento, allorquando la società percipiente in altro Stato membro non abbia modo di compensare in tale Stato l’imposta pagata in Italia a mezzo di ritenuta”.
In conclusione, “La stipulazione ed il contenuto di una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni non comporta quindi necessariamente la compatibilità del sistema tributario nazionale con i principi espressi dal T.F.U.E. in materia di libera circolazione dei capitali, sicché il conseguente obbligo di verifica in materia (e quello, eventualmente conseguente, di ricorrere all’interpretazione adeguatrice della norma pattizia), gravante sul giudice nazionale, non può essere sostanzialmente vanificato attraverso l’applicazione di una presunzione di conformità del regime convenzionale al trattato, che non ha alcun fondamento, né legale, né logico-giuridico”.
La pronuncia della Suprema Corte – la prima, per quanto ci consta, sulla tema specifico – si pone in linea con alcuni precedenti delle CGT[15] e si auspica possa contribuire a porre fine al contenzioso pendente sulla materia.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La rivista delle operazioni straordinarie”.