- la sede di direzione effettiva coincide con la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (con contestuale recepimento del criterio di localizzazione della residenza fiscale adottato nella generalità delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni);
- la gestione ordinaria è invece riferita al continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (imponendo, quindi, una valutazione dell’effettivo radicamento della società, dell’ente o dell’associazione in un determinato territorio).
Di contro, nel contesto internazionale, per evitare fenomeni di doppia imposizione economica, si continua a fare riferimento all’articolo 4, § 3 del modello OCSE di convenzione internazionale contro le doppie imposizioni sui redditi.
In particolare, nell’ipotesi in cui una società sia considerata residente in due diversi Stati, la residenza fiscale della persona giuridica sarà individuata sulla base di un accordo tra le autorità competenti (denominato mutual agreement), che dovrà tenere conto del luogo di direzione effettiva (place of effective management), del luogo di costituzione (the place where it is incorporated or otherwise constituted) e di ogni altro fattore rilevante (any other relevant factors).
Come in precedenza illustrato, l’articolo 73, comma 3, Tuir, prevede i tre criteri sostanziali – alternativi tra di loro – di collegamento delle società formalmente costituite all’estero, con il territorio dello Stato Italiano.
Di contro, il comma 5-bis dello stesso articolo 73, Tuir, è una norma che riveste carattere essenzialmente procedurale: infatti, con l’obiettivo di contrastare “fenomeni patologici” riconducibili alla residenza fiscale delle società, il Legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa che prevede l’inversione, a carico del contribuente, dell’onere della prova.
L’ordinamento tributario si è così dotato di uno strumento che solleva l’Amministrazione finanziaria dalla necessità di provare l’effettiva sede dell’amministrazione di società o enti che presentano elementi di collegamento con il territorio dello Stato italiano.
L’articolo 73, comma 5-bis, Tuir, per effetto delle modifiche intervenute con il D.Lgs. 209/2023, attualmente prevede che: “Salvo prova contraria,si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato le società ed enti che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
Interessanti principi di diritto sono stati recentemente espressi dalla suprema Corte di cassazione con la sentenza n. 2458/2025, la quale ha esaminato il caso di controllo totalitario di una società residente nelle Antille olandesi da parte di soggetti italiani.
Gli ermellini rilevano preliminarmente che l’ipotesi della c.d. “esterovestizione” ricorre quando una società, pur mantenendo nel territorio dello Stato la sede amministrativa, intesa quale luogo di concreto svolgimento dell’attività di direzione e gestione dell’impresa, localizza la propria residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa.
La riqualificazione della residenza fiscale può essere dimostrata mediante presunzioni, purché gli indici della fittizia localizzazione, desumibili da tutti gli elementi indiziari acquisiti agli atti di causa, siano esaminati nel loro insieme, non atomisticamente, secondo i criteri della gravità, precisione e concordanza, tali da trarre vigore l’uno dall’altro, completandosi a vicenda.
Sempre sulla base dell’elaborazione giurisprudenziale espressa in sede di legittimità (cfr. Cassazione n. 16697/2019), ricorre l’ipotesi di esterovestizione quando una società, la quale ha stabilito nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione, da intendersi come luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’attività di impresa e dal quale promanano le relative decisioni, localizzi la propria residenza fiscale all’estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa.
Ciò posto, nel caso esaminato dai giudici di Piazza Cavour nella citata sentenza n. 2458/2025, l’amministrazione finanziaria ha fornito plurimi elementi atti a dimostrare presuntivamente l’esistenza del fenomeno “esterovestizione” avuto riguardo alla composizione dell’organo amministrativo e, infine, con riferimento all’operatività della presunzione legale relativa prevista dall’articolo 73, comma 5-bis, Tuir, in ragione della posizione di controllo totalitario rivestita da soggetti residenti in Italia.
Gli elementi sopra indicati, tuttavia, non sono stati presi in considerazione dalla sentenza impugnata, la quale si è unicamente focalizzata su di un elemento del tutto marginale e recessivo, dal punto di vista probatorio, quale una mera certificazione di residenza fiscale all’estero.
In definitiva, è quindi “mancata quella valutazione globale e non atomistica degli elementi probatori in atti, rilevanti al fine di disvelare l’esistenza del contestato fenomeno di esterovestizione”.