Responsabilità dei magistrati e processo tributario
di Luigi FerrajoliCon la Legge n. 18/2015, il Legislatore ha modificato alcune disposizioni contenute nella Legge n. 117/1988 (c.d. legge Vassalli).
Prima di tale modifica, la formulazione della normativa previgente aveva comportato un numero ridotto di condanne a causa del c.d. “filtro di ammissibilità” della richiesta risarcitoria, che era considerato un muro quasi invalicabile.
Con la riforma, detto filtro è stato eliminato, tant’è che oggi ciascuno può rivolgersi ad un giudice per chiedere i danni “patrimoniali e non” provocati da un magistrato che “esercita con dolo o colpa grave la propria funzione” e agisce in “manifesta violazione delle legge”.
Entrando più nel dettaglio della disciplina di riferimento, vediamo come, con la nuova normativa – che, a mente dell’art. 1, è “applicabile a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria” – la responsabilità dei giudici rimane saldamente ancorata al principio di responsabilità indiretta: è sempre lo Stato, infatti, e non il magistrato, a dover risarcire i danni in caso di “mala giustizia”, rifacendosi poi, in un secondo tempo, sul giudice responsabile (artt. 2 e 7 L. n. 117/88).
In sostanza, il cittadino che ha subito un danno ingiusto da parte del magistrato non potrà chiamarlo in giudizio direttamente, ma dovrà agire – “entro tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno” – tramite l’apposita azione risarcitoria, esclusivamente nei confronti dello Stato italiano; quest’ultimo dovrà poi rivalersi sul magistrato.
All’art. 8 viene prevista la nuova misura della rivalsa da effettuarsi, in via generale, per un importo pari alla metà dello stipendio netto annuo del giudice mentre, nei casi di dolo, si può effettuare per l’importo corrispondente alla totalità dello stipendio.
Con riferimento ai confini della “colpa grave”, il 3° comma dell’art. 2 prevede che la medesima si ritiene configurabile non solo di fronte all’affermazione di fatti inesistenti o alla negazione di fatti esistenti, ma anche nelle ipotesi di violazione manifesta della Legge italiana e del diritto comunitario e di travisamento delle prove e dei fatti. Sarà considerata “colpa grave” anche emettere un provvedimento cautelare (personale o reale) al di fuori dei casi ammessi dalla Legge o senza una motivazione.
Come anticipato, a seguito dell’eliminazione del c.d. filtro di ammissibilità, non vi sono più controlli preliminari nei riguardi dell’ammissibilità della domanda di risarcimento contro lo Stato da parte dei cittadini (viene, infatti, cancellata l’attività di verifica dei presupposti e di valutazione della fondatezza delle domande, oggi svolta dal Tribunale distrettuale), mentre sopravvive la clausola di salvaguardia di cui all’art. 2 che consente al magistrato di non essere considerato responsabile per l’attività di interpretazione della legge o di valutazione delle prove e dei fatti di cui al 2° comma.
E’ evidente che le novellate richiamate disposizioni trovino puntuale applicazione anche in campo tributario, comportando la responsabilità civile dei componenti delle Commissioni tributarie ed il correlato diritto del contribuente ad essere risarcito dell’ingiusto danno subito, tenuto conto che nel testo del citato art. 2 vengono espressamente ricomprese sia le giurisdizioni speciali – quale quella tributaria – sia gli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie (chiaro richiamo ai componenti onorari delle Commissioni tributarie).
Benché non siano state ancora normativamente disciplinate ipotesi specifiche di responsabilità del giudice tributario, le fattispecie potenzialmente verificabili in forza della vigente normativa potrebbero consistere, in via esemplificativa:
- nel diniego dell’esistenza di una domanda di condono, pur essendo stata – la medesima – regolarmente presentata dal contribuente nei termini e nei modi previsti ex lege;
- nel ritenere esistente una circostanza fattuale la cui inesistenza è chiaramente posta in luce dalle risultanze acquisite agli atti;
- nella conferma, da parte del giudicante, di un avviso di accertamento con cui l’amministrazione contesti ad un soggetto un certo reddito sulla base del presunto possesso di immobili o di automobili, in applicazione dello strumento del redditometro, quando, al contrario, il soggetto non possiede alcuno di beni indicati e ciò è pienamente provato;
- nell’attribuzione ad un contribuente di un certo reddito in circostanze di omonimia, che risultino chiaramente provate da documentazione anagrafica.
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