Reverse charge intracomunitario e diritto di detrazione
di Luigi FerrajoliLa Corte di Cassazione, con sentenza n.14767/15, ha stabilito il principio di diritto secondo il quale l’applicazione del meccanismo d’inversione contabile, nell’ipotesi di acquisti intracomunitari, comporta che la violazione degli obblighi formali di contabilità e dichiarazione, pur non impedendo l’insorgenza del diritto di detrazione, qualora sussistano i requisiti sostanziali in capo al cessionario, incide sul suo esercizio, potendo provocare la decadenza da esso allorché il contribuente, pur essendo a conoscenza della natura imponibile di una fornitura, ometta di richiedere la detrazione dell’IVA a monte entro il termine previsto dalla legge.
Viepiù, la Suprema Corte ha ritenuto che l’attuale modalità di determinazione delle sanzioni relative a violazione dichiarative – contabili formali (ma non meramente tali) prevista dagli artt.5, co.4 e 6, co.1 del D.Lgs. n.471/97 (che prevedono una forbice che va dal cento al duecento per cento della differenza rispetto all’imposta dovuta e dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio), stante l’entità della percentuale fissata per la maggiorazione prevista dalla normativa nazionale e dell’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni fattispecie, ecceda quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’Iva ai fini antievasivi.
Nel caso in esame, la società contribuente aveva patito l’emissione a proprio carico di un processo verbale di constatazione dal quale emergeva l’omessa registrazione di acquisti intracomunitari.
Da ciò era scaturito un avviso in rettifica della dichiarazione Iva con applicazione delle sanzioni previste per la dichiarazione infedele e per la violazione degli obblighi inerenti alla documentazione ed alla registrazione di operazioni imponibili.
La stessa società aveva nel prosieguo proposto ricorso prima ed appello poi avverso tale avviso, ottenendo però un esito sfavorevole sia al termine del giudizio di primo grado che di quello d’appello.
La Corte di Cassazione, richiamando copiosa giurisprudenza propria e comunitaria, nel valutare la questione ha affermato come il diritto alla detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti fosse nella fattispecie sorto in capo alla società ricorrente, ma come questa non avesse provveduto ad esercitarlo tempestivamente in modo colpevole.
Tale mancato esercizio del diritto, che la Suprema Corte ha riconosciuto imputabile a negligenza, ha causato l’estinzione del medesimo, oggettivamente frutto dell’avvenuto decorso del lasso di tempo utile per provvedervi e non di intenti sanzionatori rivolti a detrimento della società.
Per la Corte di Cassazione, non giova alla società il fatto che il mancato esercizio tempestivo del diritto alla detrazione fosse ascrivibile non ad un intento evasivo o animato da malafede bensì ad una dimenticanza o svista.
La giurisprudenza comunitaria, infatti, si è espressa sul punto nel senso di distinguere due ipotesi di tardività nell’esercizio del diritto in questione, ovverosia quella legata a negligenza (da un lato) e quella frutto della convinzione – maturata in buona fede – della correttezza e della legittimità del proprio agire (dall’altro).
Nella fattispecie la società, invece di soddisfare l’onere probatorio gravante in capo a sé dimostrando come non dovesse operare la decadenza di cui si tratta, in virtù dell’assenza di qualsivoglia negligenza, ha operato esattamente nel senso contrario.
Essa ha infatti attribuito il mancato esercizio della detrazione ad una svista (o dimenticanza) che integra esattamente un’ipotesi di negligenza.
La Corte di Cassazione ha stabilito inoltre che, partendo dal presupposto che l’esercizio del diritto alla detrazione si fonda sull’adempimento degli obblighi formali di registrazione e di successiva dichiarazione, la violazione consistita nell’omessa regolarizzazione ed integrazione delle fatture ricevute dal fornitore comunitario e nell’omissione della loro registrazione è di tipo formale e non meramente formale (ciò perché incide sul versamento dell’imposta) e che dunque non può considerarsi applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art.6 D.Lgs. n.472/97.
La Corte di Cassazione, pur riconoscendo che la direttiva IVA lascia libertà agli stati membri di adottare le sanzioni ritenute più adeguate a punire i soggetti passivi d’imposta resisi inadempienti verso i propri obblighi, ha valutato tuttavia eccessiva e non necessaria ai fini del contrasto all’evasione la forbice sanzionatoria attualmente vigente, in quanto evidentemente non rispettosa del principio di proporzionalità.
La conseguenza, secondo la Suprema Corte, è che le norme che regolano tale aspetto devono essere disapplicate.