Reverse charge per fatture intestate al solo soggetto non residente?
di Marco PeiroloPaolo CentoreL’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 21 del 20 febbraio 2015, ha affermato che “il documento emesso con partita IVA italiana dal rappresentante fiscale di un soggetto passivo estero residente nella UE (o fuori dalla UE), per una cessione effettuata nei confronti di un soggetto passivo IVA residente in Italia, sia da considerare non rilevante come fattura ai fini IVA e debba essere richiesta al suo posto la fattura emessa direttamente dal fornitore estero”.
Il caso esaminato dall’Agenzia è quello del soggetto passivo stabilito in Italia che acquista beni già presenti nel territorio nazionale da un fornitore non residente con rappresentante fiscale italiano.
L’operazione non dà luogo ad un acquisto intracomunitario, imponibile ai sensi dell’art. 38 del D.L. n. 331/1993, in assenza del trasferimento materiale dei beni da altro Stato membro a destinazione dell’Italia. L’operazione in esame, che non deve essere dichiarata ai fini INTRASTAT, assume pertanto natura “interna”, in coerenza con la regola territoriale stabilita, per le cessioni di beni, dall’art. 7-bis, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972.
A seguito della generalizzazione del meccanismo del reverse charge previsto dall’art. 17, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972, disposta in recepimento della facoltà contemplata dall’art. 194 della Direttiva n. 2006/112/CE, l’imposta relativa alle operazioni territorialmente rilevanti in Italia deve essere assolta dal cessionario/committente nazionale, se “soggetto passivo stabilito” ex art. 7, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633/1972. A tal fine, si applica la procedura di integrazione di cui agli artt. 46 e 47 del D.L. n. 331/1993, se il cedente/prestatore è stabilito in altro Stato membro e la procedura di autofatturazione, se il cedente/prestatore è stabilito al di fuori della UE.
Già la risoluzione n. 89 del 25 agosto 2010 aveva chiarito che il reverse charge è obbligatorio anche se l’operatore non residente è identificato ai fini IVA in Italia direttamente, ex art. 35-ter del D.P.R. n. 633/1972, ovvero per mezzo del rappresentante fiscale. Nel citato documento di prassi, è stato consentito che, in relazione ad una cessione/prestazione interna, il rappresentante fiscale possa – per proprie esigenze – emettere nei confronti del cliente residente un documento non rilevante ai fini dell’IVA, con indicazione della circostanza che l’imposta relativa all’operazione verrà assolta dal cliente stesso (per esempio, per superare la presunzione di cessione).
Come anticipato, la risoluzione n. 21/E/2015 considera, allo stesso modo, “non rilevante come fattura ai fini IVA” anche “il documento emesso con partita IVA italiana dal rappresentante fiscale di un soggetto passivo estero”, sicché – il cessionario nazionale dovrà “emettere autofattura entro il giorno 15 del terzo mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione – nel caso di mancata ricezione della fattura del fornitore comunitario entro il secondo mese successivo a quello di effettuazione dell’operazione – ed annotarla entro il termine di emissione e con riferimento al mese precedente (articoli 46, comma 5, e 47, comma 1, secondo periodo, del DL n. 331 del 1993)”.
Sarebbe auspicabile che l’Agenzia delle Entrate chiarisse se la fattura che contenga anche l’indicazione della partita IVA attribuita dallo Stato membro di stabilimento del cedente/prestatore, oltre quindi a quella della posizione IVA italiana, sia idonea a consentire all’operatore nazionale di procedere con l’integrazione prevista dagli artt. 46 e 47 del D.L. n. 331/1993. Il dubbio si pone anche perché la R.M. 15 settembre 1993, n. VII/15/7 ha precisato che, ai fini della veicolazione delle operazioni per il tramite del rappresentante fiscale, “sia le fatture emesse che le fatture di acquisto ricevute dal rappresentante devono essere cointestate, cioè devono contenere gli estremi del rappresentante (e la sua qualità) e del soggetto rappresentato”; sicché parrebbe, salvo una diversa indicazione dell’Amministrazione finanziaria, che l’integrazione presuppone la ricezione di una fattura intestata alla sola partita IVA del soggetto non residente, trattandosi di operazioni che non potendo essere veicolate a mezzo della posizione IVA italiana sono da intendere direttamente effettuate dal soggetto estero.
Un siffatto formalismo, benché in linea con l’art. 219-bis, punto 2), lett. a), della Direttiva n. 2006/112/CE, secondo cui “la fatturazione è soggetta alle norme applicabili nello Stato membro in cui il fornitore/prestatore ha stabilito la sede della propria attività economica (…) quando (…) il fornitore/prestatore non è stabilito nello Stato membro in cui si considera effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi (…) e il debitore dell’IVA è l’acquirente dei beni o il destinatario dei servizi”, può essere superato richiamando la posizione della giurisprudenza comunitaria (causa C‑273/11, Mecsek-Gabona e causa C-438/09, Dankowski), che considera il numero di partita IVA come un elemento “formale”, non idoneo ad incidere sugli obblighi “sostanziali”, in specie quando l’Amministrazione finanziaria possa risalire alla partita IVA del soggetto estero da quella al medesimo assegnata al suo rappresentante fiscale. In questo senso, può ritenersi che il Fisco disponga delle “informazioni necessarie” per dimostrare che l’obbligo sostanziale è stato adempiuto e, quindi, l’integrazione dovrebbe ritenersi validamente operata anche se la fattura è intestata alla sola partita IVA italiana dell’operatore estero.