Ribadito il riversamento dell’onere della prova contraria ai soci delle società a ristretta base partecipativa
di Luciano SorgatoLa Corte di cassazione, con la recente ordinanza n. 21593/2024, anche dopo l’introduzione dell’articolo 7, comma 5 bis, D.Lgs. 546/1992, ribadisce la liceità della presunzione dell’attribuzione degli utili extracontabili ai soci delle cd società a ristretta base sociale, rappresentando testualmente: “Secondo questa Corte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali con ristretta base partecipativa, ove sia accertata la percezione di redditi societari non contabilizzati, opera la presunzione di loro distribuzione “pro quota” ai soci, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti dalla società, non occorrendo che l’accertamento emesso nei confronti dei soci risulti fondato anche su elementi di riscontro tesi a verificare, attraverso l’analisi delle loro movimentazioni bancarie, l’intervenuto acquisto di beni di particolare valore, non giustificabili sulla base dei redditi dichiarati”.
La sentenza non appare condivisibile, proprio alla luce dei nuovi principi che coordinano la dialettica sulla prova nel processo tributario. Secondo il governo di tali nuovi principi, l’atto impositivo dev’essere annullato, se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è, comunque, insufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva. In particolare, si ritiene di sottolineare come il nuovo elaborato normativo determini l’esautoramento di ogni valore indiziario della prova, qualora il suo scrutinio evidenzi una contraddizione endogena delle sue ordinarie prerogative. La prova deduttiva deve fondarsi su un raccordo inferenziale tra il fatto noto ed il fatto indotto, capace di rendere percepibile una verità processuale supportata da assoluta ragionevolezza, non ostruita da prospettive valutative divergenti, in quanto diversamente la presunzione non riesce a esternarsi nella sua struttura ternaria di gravità, precisione e concordanza, che, come noto, fondano i loro paradigmi sulla massima verosimiglianza e non agevole confutazione.
Tanto premesso, in ordine a tale presunzione di creazione giurisprudenziale (e non legale), si deve sottolineare come in Dottrina (A. Contrino, “Ristretta base sociale e prova mediante presunzione semplice della distribuzione di utili” in Corr. Trib. 8/9- 2014) venga ritenuto che, se può essere considerato ragionevole che la prova incombente sull’Agenzia delle entrate possa essere fornita anche con le presunzioni dell’articolo 2729, cod. civ., configurandosi la presunzione semplice alla stregua di un mezzo di cognizione mediata ed indiretta di un fatto controverso, è anche vero che, per assurgere al rango di piena prova, la presunzione debba essere la conseguenza quantomeno più probabile (e, quindi, non solo possibilistica) rispetto ad altre ipotesi, pure deducibili dal fatto noto (come nel caso della presunzione in scrutinio possono essere la creazione di riserve occulte, la destinazione degli utili alla creazione di fondi per il pagamento di costi non contabilizzati, che se pur denotanti un manifesto disvalore sociale, non sono però correlabili ad alcuna prospettiva di “utili distribuiti in via extracontabile ai soci)”.
La ristretta base della compagine sociale, quindi, è un dato di fatto, che non consente di trarre come univoca, ma neppure come la più probabile, rispetto ad altre possibili, la conclusione che gli utili societari non dichiarati siano stati effettivamente distribuiti ai soci.
In piena condivisione con quanto sostenuto da altra Dottrina (A. Perrone, “Perché non convince la presunzione di distribuzione di utili “occulti” nelle società a ristretta base proprietaria” in Riv di Dir Trib. n.5/2014) si deve ritenere che esistano almeno due preliminari aspetti che devono essere considerati in uno studio concernente la presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società a ristretta base sociale e/o a base familiare: il primo aspetto concerne la natura della presunzione, il secondo la sua attuale estensione. In ordine alla natura, si tratta pacificamente di una cd presunzione giurisprudenziale, atteso che essa deriva solo da un orientamento espresso dalla Suprema Corte, sprovvista di un qualsiasi supporto normativo. Anzi, se ci si dovesse attenere al dato normativo, tale presunzione non dovrebbe incontrare alcun consenso nel nostro ordinamento, in quanto l’automatica imputazione dell’utile sociale al socio è propria solo dell’istituto della cd “tassazione per trasparenza” che non riguarda le società di capitali, salvo, possedendone i requisiti, non abbiano manifestato la specifica opzione di legge. Quanto, poi, al perimetro di estensione, la sua latitudine, ampliatasi sino a riguardare anche le fattispecie di indeducibilità di componenti negativi di reddito per la sola contrarietà dei medesimi a principi generali del reddito d’impresa e a risultati di bilancio in perdita, è stato censurato dalla dottrina, in quanto praticamente portante l’insidioso paradigma indiziario della presunzione assoluta e con esso il ribaltamento della prova diabolica al contribuente.
Volendo intentare un scrutinio di diritto in ordine a tale anomala presunzione, l’indagine non può non dipartire dall’evidenziare come le sentenze (ormai granitiche) in cui la Corte di cassazione afferma l’ammissibilità della presunzione in esame, seguano un ragionamento che raccorda il percorso inferenziale fondamentalmente sul caposaldo: “Il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori utili induttivamente accertati nei confronti della società, ma dal vincolo di solidarietà, di complicità e di reciproco controllo dei soci”.
Secondo la Corte, come è dato rinvenire, senza ormai eccezioni, nelle sue sempre più stringate sentenze, la ristretta base partecipativa è, quindi, sintomatica di complicità, che “normalmente avvince un gruppo così composto” ed evidenzia un “vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che normalmente caratterizza la gestione sociale”.
La Corte di cassazione fonda il suo dogma presuntivo, ricorrendo costantemente all’avverbio normalmente che, nell’identità della prova presuntiva, è alla base della cd regola di esperienza comune, per cui ciò che avviene nelle società di capitali a ristretta base sociale è normalmente la distribuzione tra i soci dell’imponibile evaso. Ma partecipa anche del fatto notorio che ciò che normalmente avviene, non sempre realmente si verifica. La questione, dunque, attiene all’onere della prova. La dottrina è unanime nel ritenere che tale prova (di non aver percepito l’utile) non spetti al contribuente, ma in base alla normale dialettica processuale, come prima prevista nell’articolo 2697 cod. civ. ed ora ed in modo rinforzata o dal nuovo articolo 7, comma 5bis, D.Lgs. 546/1992, all’Amministrazione finanziaria, in quanto non trattasi di prova contraria, bensì di prova integrativa. In dottrina viene, infatti, sottolineato come nel moderno contesto dell’accertamento tributario è molto più semplice per il fisco addurre degli elementi probatori a sostegno (ad integrazione) della presunzione, piuttosto che richiedere al contribuente la prova diabolica di un fatto negativo. L’Amministrazione finanziaria, infatti, sfruttando tutti gli strumenti telematici di cui è in possesso e l’enorme banca dati di cui dispone, si trova nella condizione agevole di verificare se i soci hanno acquisito disponibilità patrimoniali, o hanno effettuato maggiori spese in concomitanza con l’accertamento del maggior reddito societario, o se essi evidenzino movimenti finanziari incompatibili con i redditi da loro dichiarati, o, ancora, se il loro tenore di vita è incompatibile con il reddito da essi dichiarato. Non spetta al contribuente dare la “prova negativa” della mancata percezione dell’utile, ma spetta all’Amministrazione finanziaria integrare gli elementi positivi di riscontro della presunzione della distribuzione (In tale preciso senso, anche V. Ficari “Modifiche normative ed onere della prova tra procedimento e processo tributario”. In Riv. Dir. Trib. n. 6/2023).
Anche per l’ordinanza della Corte di cassazione in commento, invece, e nonostante i nuovi principi introdotti sull’onere della prova, costituisce diritto vivente il riversamento della prova contraria a carico dei soci accertati in ogni caso di redditi societari non contabilizzati.
A proposito di diritto vivente in ordine alla presunzione giurisprudenziale in questione, non può non venire a mente la condivisibile digressione che Sergio Mattarella (Professore Costituzionalista e Presidente della Repubblica Italiana) ha proferito in un discorso pronunciato di fronte al CSM:“Il diritto, perché possa rappresentare vero diritto, deve vertere in una condizione di costante tensione esegetica, e mai incapsulato in dogmi inscalfibili. Solo un’opera esegetica dinamica assicura un diritto vivente autenticamente aderente alla sua funzione sociale, mentre la stagnazione dell’opera interpretativa lo mette a rischio di una insidiosa obsolescenza di pensiero giuridico”.