Rimborso IVA non dovuta se il cliente è accertato: sempre e comunque?
di Marco PeiroloPaolo CentoreSulla questione dell’applicazione in fattura di un’IVA o una maggiore IVA non dovuta, è noto che il fornitore ha, a pena di decadenza, due anni di tempo dal pagamento dell’imposta per attivare la richiesta di rimborso nei confronti dell’Amministrazione finanziaria (articolo 21 del D.Lgs. n. 546/1992) a fronte del termine decennale di prescrizione a disposizione del cliente per l’azione di ripetizione nei confronti dell’operatore (articoli 2033 e 2946 cod. civ.).
La Corte di giustizia, nella causa C-427/10 del 15 dicembre 2011, relativa al caso Banca Antoniana Popolare Veneta, ha ritenuto che il disallineamento dei termini di rimborso a disposizione, rispettivamente, del fornitore e del cliente non sia, di per sé, incompatibile con l’ordinamento unionale. La tutela dei princìpi di effettività e di equivalenza esige, tuttavia, che sia garantita la restituzione dell’IVA al fornitore se esposto all’azione di ripetizione del cliente.
La convivenza delle due disposizioni configgenti persegue, quindi, l’obiettivo, già indicato dall’Avvocato generale, di non rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di rimborso dell’imposta non dovuta.
Giunto al vaglio della Corte di Cassazione il tema della coesistenza del doppio termine di rimborso, i giudici di legittimità hanno recepito in modo alquanto rigoroso le indicazioni della Corte europea, ritenendo che – per la restituzione dell’imposta al fornitore – non sia sufficiente la mera richiesta di rimborso avanzata dal cliente, essendo necessario un provvedimento coattivo che disponga l’obbligo di pagamento a suo favore (sentenza n. 12666/2012).
Tale principio è stato ribadito nelle successive pronunce in materia (Cassazione n. 1426/2016; Id. n. 3627/2015; Id. n. 25988/2014; Id. n. 6605/2013).
Non è, tuttavia, lecito teorizzare che la Corte di giustizia, nel rapporto “tributario” tra il fornitore e l’Amministrazione finanziaria, abbia inteso escludere il rimborso nel caso in cui l’imposta sia stata restituita al cliente “spontaneamente”, anziché a seguito di un provvedimento coattivo, siccome la particolare “cautela” imposta dai giudici nazionali, vale a dire il richiamo al “dovere” di rimborso, risulta esclusivamente finalizzata a garantire che gli effetti dell’indebito pagamento dell’IVA e, dunque, del recupero, non ricadano in danno dell’Erario.
In pratica, il cliente al quale venga disconosciuta la detrazione operata in ragione della natura indebita dell’imposta si rivolgerà al proprio fornitore per ottenerne la restituzione, per cui è logico ritenere che se quest’ultimo ha provveduto al relativo rimborso, in modo spontaneo o coattivo, avrà diritto – anche oltre il termine biennale di decadenza previsto dall’articolo 21 del D.Lgs. n. 546/1992 – ad essere reintegrato dall’Amministrazione finanziaria; in caso contrario, l’Erario trarrebbe un indebito arricchimento a danno del fornitore, sul quale finirebbe per gravare il tributo con una evidente violazione del principio di neutralità.
Si tratta, pertanto, di tutelare una duplice esigenza: da un lato, quella dell’Erario, che non deve subire la perdita di gettito che si concretizzerebbe qualora al fornitore fosse restituita un’imposta che il cliente ha detratto e che, eventualmente, l’Amministrazione non ha più potere di recuperare a tassazione in ragione dell’intervenuta decadenza dell’azione di accertamento e, dall’altra, quella del fornitore, che si trova esposto ad un “doppio fuoco”, cioè alla richiesta di restituzione dell’IVA al proprio cliente senza essere più in grado di rivalersi nei confronti dell’Amministrazione finanziaria stante l’intervenuto decorso del termine biennale.
Ed è proprio questo l’elemento sul quale occorre focalizzare l’attenzione per raggiungere un risultato in linea con i princìpi sanciti a livello unionale.
È vero che la Corte UE riconosce il diritto di rimborso una volta eliminato completamente il rischio di perdita di gettito (causa C-138/12, Rusedespred e causa C-111/14, GST–Sarviz).
Dagli arresti giurisprudenziali in rassegna si desume, in particolare, che l’obbligo di versare l’IVA indicata in fattura, previsto dall’articolo 203 della Direttiva n. 2006/112/CE e, nella normativa nazionale, dall’articolo 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972, è volto ad evitare che l’Erario, a fronte della detrazione operata dal cliente, non abbia la certezza di riscuotere l’imposta dovuta dal fornitore.
L’applicazione “a contrariis” di tale principio richiede, secondo l’interpretazione offerta dai giudici europei, che l’imposta versata e non dovuta sia rimborsata al fornitore se al cliente è stata definitivamente negata la detrazione, salvaguardando così la neutralità dell’imposta.
Per esemplificare, si possono verificare due situazioni.
Nel primo scenario, il cliente si attiva per il recupero dell’imposta non dovuta in tutto o in parte “in autonomia”, cioè senza il preventivo impulso dell’Agenzia delle Entrate: questo può essere il caso in cui l’imposta non sia stata detratta perché indetraibile oggettivamente o soggettivamente. In tale evenienza, non avendo l’Ufficio ripreso a tassazione l’imposta addebitata in fattura dal fornitore, può avere senso il controllo giudiziale indicato dalla Corte di Cassazione negli interventi richiamati, in quanto finalizzato ad evitare una perdita di gettito dell’Erario ed al fine di evitare che le parti private raggiungano un accordo in frode agli interessi erariali.
Nel secondo scenario, il cliente ha proceduto alla detrazione dell’imposta addebitata (in tutto o in parte illegittimamente) e, dunque, non ha motivo, neanche sotto il profilo civilistico, di richiederne il riversamento al fornitore se non a seguito e in dipendenza di una successiva contestazione da parte dell’Agenzia. Quindi, in una situazione nota alla parte pubblica del rapporto.
Ed a maggior ragione, laddove il cliente abbia accettato la rettifica e riversato il tributo contestato all’Erario, la prospettiva è completamente diversa: l’Amministrazione finanziaria è al riparo da situazioni di perdita di gettito e non vi è motivo di imporre un controllo giudiziale all’azione di rimborso da parte del fornitore che, a questo punto, può anche essere “spontaneo”, cioè a semplice domanda del proprio cliente.
Come conseguenza, il fornitore ha diritto di richiedere il rimborso dell’IVA all’Erario, senza ulteriori formalità, essendo ad esso noto che la parte passiva, cioè il riversamento dell’imposta da parte del cliente, è già intervenuto.
Non risulta allora condivisibile la conclusione recentemente raggiunta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze nella sentenza n. 1339/4/16 del 7 ottobre 2016, che esclude l’applicazione del termine decadenziale previsto per il rimborso a favore del fornitore sulla base della sola assenza di danno erariale, avendo il cliente accertato riversato l’imposta detratta.
Il riconoscimento del rimborso oltre il biennio è, infatti, preordinato ad evitare non solo l’indebito arricchimento dell’Erario, ma anche quello dello stesso fornitore. Sicché, in definitiva, deve ritenersi ammesso sotto condizione che al cliente sia stata ripagata l’imposta, anche se spontaneamente e non in forza di un provvedimento giudiziario che obblighi il fornitore a ripetere quanto indebitamente addebitato a titolo di rivalsa, purché l’Erario sia stato preventivamente ristorato da parte del cliente attraverso il riversamento dell’IVA originariamente applicata (versata e detratta) e non dovuta.
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