Risarcimento imponibile se si qualifica come lucro cessante
di Fabio LanduzziLa Corse di Cassazione, nella sentenza n. 5275/2022, affrontando una controversia insorta fra i soci di una società a seguito di un aumento del capitale sociale della stessa che, secondo uno di essi, a causa della rilevantissima entità, lo aveva indotto a dover forzatamente cedere la propria partecipazione “a prezzo vile” subendo così un significativo depauperamento del proprio patrimonio, è stata chiamata a pronunciarsi in tema di concorrenza, o non concorrenza, alla formazione del reddito imponibile della persona fisica danneggiata, della somma da questa percepita a titolo di risarcimento del danno subito.
La Cassazione ha affermato in questa circostanza che il risarcimento del danno conseguente alla cessione di azioni “a prezzo vile”, determinatosi per effetto della condotta degli altri soci che si è contraddistinta come una forma di abuso di maggioranza in violazione dell’articolo 1375 cod. civ., accertata dal Giudice in sede civile, può concorrere alla formazione del reddito imponibile della persona del danneggiato andando perciò a costituire una plusvalenza ai sensi degli articoli 67 e 68 Tuir, ma esclusivamente nell’ipotesi in cui tale cessione, a prescindere dalla situazione soggettiva della persona, e quindi della volontarietà o meno dell’atto di cessione, sia qualificabile come un “lucro cessante”, ossia come una voce sostitutiva del reddito; non deve invece concorrere alla formazione del reddito della persona laddove si qualifichi come un risarcimento del solo “danno emergente”.
La vicenda giunta alla decisione della Suprema Corte, che cassa con rinvio al Giudice del secondo grado la precedente sentenza emessa dalla Commissione Tributaria Regionale, trae origine dalla domanda di risarcimento danni promossa da una persona contro i soci di una società, suoi familiari, i quali l’avrebbero forzata a dover cedere le proprie partecipazioni ad un prezzo significativamente inferiore al loro valore, a causa di un rilevantissimo aumento di capitale sociale che – stante le sue difficoltà a sottoscriverlo – avrebbe altrimenti provocato una ingente diluizione della propria quota partecipativa al capitale della società.
L’Agenzia delle Entrate aveva contestato la natura reddituale della somma riconosciuta alla persona dell’attore quale somma integrativa della plusvalenza realizzata con la cessione; la Commissione Tributaria Regionale aveva invece attribuito alle somme in oggetto la natura di ristoro patrimoniale della persona, in termini di risarcimento della perdita di valore della quota, escludendone così il concorso alla formazione del suo reddito, poiché detta somma non avrebbe avuto la natura di maggiore introito che sarebbe stato percepito laddove la cessione fosse avvenuta ad un prezzo di mercato, e non forzatamente ridotto, come in effetti accaduto a causa dell’aumento di capitale.
La questione di fondo, come riconosce la Cassazione, di tutt’altro che agevole soluzione, attiene perciò alla qualifica del risarcimento del danno:
- se si tratta di ristoro del valore effettivo delle quote possedute al momento della delibera di aumento del capitale viziata da abuso di maggioranza, allora si qualificherà come un “danno emergente” non imponibile;
- se invece si tratta di risarcire alla persona la parte del valore della sua partecipazione che eccede il prezzo incassato con la cessione, allora si qualificherà come “lucro cessante” e quindi concorrerà a formare il reddito imponibile della persona.
Sottolinea la Cassazione che per quanto concerne la “specifica destinazione funzionale” delle somme corrisposte a titolo risarcitorio, occorre perciò distinguere fra quelle che sono dirette alla mera reintegrazione della originaria situazione patrimoniale del danneggiato che non sono suscettibili di concorrere alla formazione del reddito imponibile, e quelle che invece sono destinate a sostituire i redditi che il danneggiato non ha potuto realizzare, o ha realizzato in misura inferiore, a causa della violazione perpetrata a suo danno, nel qual caso si qualifica un lucro cessante e quindi il concorso delle stesse alla formazione del reddito imponibile della persona per via della loro natura surrogatoria del reddito mancato.
Nel caso di specie, benché il danno sia stato causato da una delibera di aumento del capitale sociale viziata da un abuso di maggioranza, le conseguenze si sono prodotte su due livelli; un primo, rappresentato dalla perdita di valore della partecipazione rispetto a cui le somme corrisposte potrebbero essere dirette a produrre una mera reintegrazione patrimoniale; un secondo, rappresentato dal fatto che il prezzo percepito con la cessione delle quote è risultato assai inferiore a quello che si sarebbe potuto realizzare in assenza della delibera viziata, e questa componente di risarcimento assume natura sostitutiva del reddito.
A tale riguardo, conclude la Cassazione, non rileva la situazione soggettiva della persona, ossia la volontarietà della cessione della partecipazione o la sua natura forzata come forma di contenimento del danno, dovendosi giudicare esclusivamente la qualificazione delle somme secondo le indicazioni di cui sopra che sono riportate nel principio di diritto affermato nella sentenza ed a cui dovrà attenersi il Giudice del rinvio nel decidere della vicenda.