Roma caput mundi
di Chicco Rossi
Prima di Natale, andando in libreria mi imbattei in un libro la cui copertina mi incuriosì molto.
Infatti, la fotografia riprodotta in copertina mi fece associare il libro a quello che ormai è già diventato un cult della televisione del nuovo millennio: quel Romanzo criminale nato dalla splendida penna del giudice De Cataldo e riproposto, dapprima sul grande schermo da Michele Placido e poi per la televisione con la partecipazione di Vinicio Marchioni nella parte del Freddo.
Fatto sta che, visto che per me un libro è un’emozione e deve essere acquistato senza troppo ragionarci, l’ho comprato e ho scoperto una vera perla letteraria.
Ma diversamente non poteva essere vista la casa editrice: quella Neri Pozza sinonimo di qualità.
Il libro che ho acquistato, guarda caso, ha vinto la prima edizione del Premio Neri Pozza.
È scritto da Marco Montemarano e racconta la storia di un ragazzo e le sue amicizie in quelli che furono gli anni ’70.
“La ricchezza”, questo è il titolo del libro, si sviluppa prevalentemente a Roma.
Protagonista è Giovanni – Hitchcock, ma la storia, nella realtà, si dipana lungo splendore e miseria della famiglia dell’onorevole Pedrotti composta da due fratelli e una sorella.
Il libro è un ottimo spunto di riflessione perchè, padre o madre di famiglia, ha il compito più duro della vita: fare il genitore.
L’assenza dell’onorevole e la svagata cortesia ed estraneità della madre, che non si ricorda nemmeno come si chiami Giovanni nonostante la frequentazione giornaliera di casa Pedrotti, comportano la decadenza dei figli che, se in giovinezza hanno fruito dell’agiatezza economica, nel proseguo della vita dovranno fare i conti con la realtà quotidiana.
Ma tralasciando queste filosofie spicce e soprattutto che sanno tanto di luoghi comuni che non competono certamente a Chicco Rossi che, tra l’altro, ha già i suoi grattacapi, addentriamoci nella Capitale.
Il compito è arduo perché la città eterna ha un’offerta talmente ampia che sarebbe ed è limitativo dedicarci un solo week end, però questo è il fine settimana della stracittadina per eccellenza.
Vi assicuro che assistere a un Roma – Lazio, per i calciofili, è un esperienza unica e soprattutto una tappa obbligatoria, degna di essere raccontata, un po’ come assistere a una partita dalla mitica Cop.
Chicco Rossi ha, tra le altre cose, avuto il piacere di assistervi: un 2-2 spettacolare.
Ma noi a Roma andiamo anche per visitare la città eterna con la sua inarrivabile offerta di monumenti che raccontano la storia di quello che fu il grande Impero romano ma non solo.
Come si fa a non fare una visita ai Musei vaticani, patrimonio di arte inarrivabile? O andare a visitare S. Pietro (sempre per restare in tema)?
Ma oggi l’unico consiglio che voglio darvi è di andare a degustare (badate bene, non a mangiare) il sublime cacio e pepe di Felice al Testaccio.
Io ci sono andato portato da un amico in una delle mie scorribande nella capitale e vi assicuro che definirlo sublime è dir poco.
Sarà perché, se ricordate bene, Chicco Rossi ha un debole per i latticini, sarà perché si trova nel vero quartiere dei romani (altro che la mondana Trastevere), sarà che viene fatto al tavolo come dovrebbe sempre essere.
Eh si, perché il cacio e pepe è come la tartare (altra debolezza culinaria del Chicco): deve essere fatta e condita davanti ai propri occhi e deve avere obbligatoriamente anche l’uovo altrimenti che tartare è? Breve lezione di storia culinaria: il nome tartare deriva dalla leggenda secondo cui il popolo nomade dei tartari, non avendo tempo per cucinare, metteva la carne essiccata sotto le selle dei cavalli per poi trovarla ammorbidita e pronta da mangiare.
Provate anche voi: un bel pezzo di filetto marinato una notte nel vino, lo tritate finemente al coltello e lo condite con cipolla, capperi, un tuorlo d’uovo, salsa Worcester e un pizzico di senape, rigorosamente di Digione (un giorno Chicco Rossi vi racconterà la sua visita nel negozio della Maille) e il gioco è fatto.
Ma noi siamo al Testaccio per mangiare il cacio e pepe e poi proseguire nel rispetto della tradizione romana con un classico osso buco o una coda alla vaccinara. A voi la scelta.
Ma quale vino scegliamo per accompagnare questi piatti che light proprio non sono?
La scelta cade su un nome che ai più forse non dirà niente ma ad altri dice tutto.
Fiorano rosso della Tenuta di Fiorano del principe Alessandrojacopo Boncompagni Ludovisi.
Il vino viene ottenuto da uve cabernet sauvignon e merlot e viene fatto riposare e maturare in fusti di rovere di Slavonia da 10 ettolitri. Dal colore rosso rubino vivo ed intenso, di media concentrazione, presenta dei profumi davvero complessi ed articolati. Al naso è elegante e finissimo. Ricorda i vecchi bordeaux. Note di liquirizia, humus, una bella mineralità e accenni di radici.