“Scudo fiscale”: è compito del giudice tributario accertare la sussistenza del reato
di Lucia Recchioni - Comitato Scientifico Master Breve 365Nel contenzioso tributario non opera automaticamente l’efficacia vincolante del giudicato penale, in quanto, nell’ambito dei due procedimenti, operano difformi regole probatorie. La sentenza penale costituisce quindi un semplice elemento di inizio e non rappresenta un accertamento preliminare necessario. Spetta al giudice tributario risolvere in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione.
Sono questi i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12510, depositata ieri, 12 maggio.
Ad un contribuente che aveva aderito al c.d. “scudo fiscale” di cui all’articolo 13-bis D.L. 78/2009 venivano notificati quattro avvisi di accertamento in quanto, ad avviso dell’Agenzia delle entrate, l’adesione allo “scudo fiscale” doveva ritenersi non produttiva di effetti, avendo il rimpatrio riguardato attività derivanti da reati diversi da quelli espressamente richiamati dalla stessa norma di legge.
La CTR riteneva l’accertamento del reato di competenza del giudice penale: secondo la tesi prospettata era quindi onere dell’Agenzia delle entrate provare tale accertamento da parte dello stesso giudice.
La vicenda veniva quindi sottoposta alla Corte di Cassazione, la quale è giunta a diverse conclusioni, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle entrate.
Giova a tal proposito ricordare che, in forza delle previsioni introdotte dal D.L. 78/2009, il pagamento della specifica imposta prevista precludeva, nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati, ogni accertamento tributario e contributivo, limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme oggetto di rimpatrio. Erano inoltre estinte le sanzioni amministrative tributarie e previdenziali e veniva esclusa la punibilità per i reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e per i reati di cui al D.L. 429/1982, relativamente alle disponibilità delle attività finanziarie dichiarate.
Il rimpatrio di attività detenute all’estero derivanti da reati diversi da quelli appena richiamati non produceva però gli effetti previsti e, di conseguenza, non precludeva l’esercizio del potere di accertamento da parte dell’Agenzia delle entrate.
Il catalogo dei reati esclusi da punibilità fu successivamente ampliato ad opera dell’articolo 1 D.L. 103/2009.
Fatta questa precisazione, la Corte di Cassazione giunge quindi a ritenere che “il legislatore, nell’escludere l’effetto preclusivo dell’esercizio del potere di accertamento quando il rimpatrio o la regolarizzazione riguardassero attività derivanti da reati diversi da quelli per i quali lo scudo fiscale prevedeva l’esclusione della punibilità, non riservò l’accertamento di tali reati (né, tanto meno, della derivazione dagli stessi delle attività rimpatriate o regolarizzate) al giudice penale”.
Ai sensi dell’articolo 2, comma 3, D.Lgs. 546/1992 è quindi il giudice tributario chiamato a risolvere, in via incidentale, ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 20 D.Lgs. 74/2000, il processo tributario non può essere sospeso per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione.
Spettava dunque al giudice tributario pronunciarsi sulla richiamata questione pregiudiziale, in quanto decisiva ai fini della soluzione della controversia: ha errato la CTR nel ritenere che l’accertamento fosse di competenza del giudice penale.