Lo scudo fiscale non fissa la residenza in Italia
di Nicola FasanoCon la recente sentenza n. 19484/2016 la Cassazione è tornata ad occuparsi della spinosa questione della residenza fiscale delle persone fisiche. Il caso, in particolare, riguarda un noto motociclista che aveva aderito al “vecchio” scudo fiscale del 2001 e che a fronte degli accertamenti da parte del Fisco aveva invocato il suo status di soggetto residente all’estero (nel dettaglio a Montecarlo, Paese black list senza Convenzione contro le doppie imposizioni con l’Italia).
La Suprema Corte osserva che i criteri per la determinazione della residenza nel territorio dello Stato sono indicati nell’articolo 2 Tuir il quale individua, a tal fine, al comma 2, tre presupposti, in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta; gli altri due, di fatto, costituiti dal domicilio o dalla residenza nello Stato ai sensi del codice civile (sempre per lo stesso arco temporale minimo).
Il comma 2-bis, poi, stabilisce che si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente ed emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, tutt’ora individuati sulla base del D.M. 4 maggio 1999 (c.d. paesi black list).
I giudici di legittimità, pertanto, osservano che la residenza in Italia del contribuente, iscritto all’AIRE e residente nel Principato di Monaco, va accertata alla stregua della suddetta disposizione la quale prevede una presunzione relativa di residenza in Italia (e cioè di fittizietà della residenza monegasca), che può essere vinta dall’interessato fornendo la prova contraria.
Ciò posto la Cassazione afferma che nell’applicazione di tale disciplina, si rivela errato attribuire – come aveva fatto il giudice di secondo grado – alla dichiarazione riservata presentata nell’ambito del c.d. “scudo fiscale” (ai fini della regolarizzazione di cui all’articolo 15 del D.L. 350/2001) natura – decisiva – di “autodichiarazione”, o “autodenuncia”, della propria residenza italiana (e ciò sulla base della considerazione che i destinatari e potenziali beneficiari dell’istituto sono soltanto i soggetti residenti), con l’effetto di rendere in radice superfluo l’esame degli elementi probatori addotti dal contribuente al fine di superare la menzionata presunzione.
Correttamente la Suprema Corte precisa che tale qualificazione giuridica non ha fondamento normativo: l’avere inteso regolarizzare (e non rimpatriare) alcune attività detenute all’estero, tramite l’istituto dello scudo fiscale, non determina, per ciò solo, in assenza di una chiara previsione (o di specifica e idonea dichiarazione), l’effetto della acquisizione, da parte del dichiarante, della residenza in Italia, né quello di privarlo, per una sorta di implicita rinuncia, del diritto alla prova contraria, convertendo la presunzione in certezza; e ciò neppure a voler considerare l’istituto accessibile ai soli residenti, in quanto, in generale, il possesso di un requisito di ammissione si accerta in base alla normativa che lo regola e non in virtù della presentazione della domanda che lo esige.
In definitiva, i giudici di legittimità concludono che il comportamento in esame non può avere, di per sé, automatiche e drastiche conseguenze che portano ad attrarre in Italia la residenza fiscale del contribuente, potendo solo essere oggetto di valutazione nell’ambito del complesso degli elementi probatori acquisiti in giudizio ai fini di cui al citato articolo 2, comma 2-bis, Tuir.
La sentenza, pertanto, conferma la centralità delle disposizioni dell’articolo 2 del Tuir in merito alla residenza fiscale della persona fisica. Ciò, aggiungiamo noi, a condizione che non vi sia una Convenzione contro le doppie imposizioni (che con Montecarlo invece manca) grazie alla quale si possa bypassare l’articolo 2 Tuir in favore dell’articolo 4 della Convenzione elaborata sulla base del Modello Ocse che, come noto, nel caso in cui due Paesi contraenti si contendano la residenza fiscale della persona fisica, fissa i criteri dirimenti da seguire in ordine gerarchico (c.d. “tie breaker rules”) fra cui spiccano, in prima battuta, quello dell’abitazione permanente e, in secondo luogo, quello cruciale del “centro degli affari e degli interessi vitali” del soggetto.
Sotto questo aspetto non ci si può esimere dal ricordare l’“infortunio” della Cassazione nella recente sentenza 21970/2015, laddove è stato frettolosamente concluso che la mancata iscrizione AIRE del contribuente determini, senza in sostanza possibilità di prova contraria, la residenza fiscale della persona fisica, anche se nel caso di specie il contribuente si era trasferito in Romania, Paese con cui esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni.
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