7 Novembre 2017

Sdoganamento dei beni valida esimente per i costi black list

di Marco Bargagli
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Per effetto delle novità introdotte dalla legge di Stabilità 2016, sono state abrogate le disposizioni che rendevano indeducibili, dal reddito di impresa, i costi sostenuti nell’ambito delle transazioni economiche e commerciali intrattenute con fornitori residenti in Stati o territori aventi regime fiscale privilegiato.

Quindi, attualmente, i costi black list sono deducibili dal reddito d’impresa in base alle norme generali previste per i componenti del reddito d’impresa ex articolo 109 del D.P.R. 917/1986, a norma del quale i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza e sulla base dei noti principi di inerenza, certezza ed obiettiva determinabilità.

Tuttavia, sino al 31 dicembre 2015 risultano ancora operative le disposizioni in precedenza contenute nell’articolo 110, commi da 10 a 12-bis, del D.P.R. 917/1986.

Tale aspetto è affermato anche nella circolare 39/E/2016, la quale ha confermato l’applicazione delle sanzioni anche per il passato.

Quindi, con riferimento ai periodi d’imposta precedenti al 2016, potranno essere applicate sia la sanzione prevista per l’omessa separata indicazione dei costi black list, sia la sanzione per dichiarazione infedele qualora i costi sostenuti fossero considerati totalmente o parzialmente indeducibili in assenza delle due esimenti in precedenza previste dall’articolo 110, comma 11, del D.P.R. 917/1986.

Prima della sua eliminazione, l’articolo 110, comma 11, del D.P.R. 917/1986, consentiva al contribuente di dedurre integralmente i costi sostenuti nelle transazioni intercorse con fornitori paradisiaci, al ricorrere delle due esimenti previste dalla normativa di riferimento.

In particolare, la disciplina dell’indeducibilità dei costi black list non operava se le imprese residenti in Italia, ai sensi del successivo comma 11 dell’articolo 110 del D.P.R. 917/1986, avessero dimostrato che “le imprese estere svolgevano prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondevano ad un effettivo interesse economico e che le stesse avevano avuto concreta esecuzione”.

L’Agenzia delle Entrate, con risoluzione AdE 46/E/2004, ha indicato, a titolo esemplificativo, una serie di dati e documenti ritenuti idonei a dimostrare l’esercizio dell’attività commerciale.

A titolo esemplificativo, l’impresa italiana che effettuava scambi commerciali poteva acquisire, da parte del soggetto estero, i seguenti documenti:

  • il bilancio;
  • l’atto costitutivo;
  • un prospetto descrittivo dell’attività esercitata;
  • i contratti di locazione degli immobili utilizzati come sede degli uffici e dell’attività;
  • la copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche;
  • i contratti di lavoro dei dipendenti, con indicate anche le mansioni svolte;
  • i conti correnti bancari della società estera;
  • la copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti ed agli uffici;
  • le autorizzazioni sanitarie ed amministrative relative all’attività esercitata ed all’utilizzo dei locali.

Di contro, per dimostrare l’effettivo interesse economico dell’operazione, occorreva dimostrare i reali vantaggi conseguiti nella transazione e per quale motivo l’impresa italiana aveva scelto di acquistare beni o servizi dal fornitore localizzato in un paradiso fiscale.

Anche in tale circostanza, il contribuente poteva acquisire una serie di dati e notizie, di seguito esemplificati:

  • prezzi praticati dal fornitore particolarmente competitivi;
  • alta qualità delle merci acquistate;
  • esclusiva di determinati beni da parte di un fornitore;
  • vantaggiose dilazioni di pagamento concesse dal fornitore;
  • puntualità della consegna della merce da parte del vettore incaricato.

Recentemente la Cassazione, con l’ordinanza n. 22901/2017 depositata in data 29 settembre 2017, si è nuovamente espressa in tema di deducibilità dei costi black list dal reddito d’impresa. La Corte, accogliendo il ricorso del contribuente, ha confermato la decisione assunta nei precedenti due gradi di giudizio da parte del giudice di merito.

Il contenzioso era nato a seguito di una verifica fiscale eseguita da parte dell’Agenzia delle Entrate, nel corso della quale era stato rilevato che:

  • la società aveva omesso di indicare i costi sostenuti tra le variazioni fiscali del quadro RF della dichiarazione dei redditi – rigo: “spese ed altri componenti negativi per operazioni con soggetti residenti in Stati o territori con regime fiscale privilegiato”, come previsto dall’articolo 110, comma 11, ultimo periodo, del D.P.R. 917/1986;
  • lo sdoganamento dei beni non dimostrava, a parere dei verificatori, che l’operazione economica avesse avuto concreta esecuzione, tenuto conto che non era stata fornita né prova del pagamento della fornitura, né che si trattava di merce non reperibile altrove;
  • l’effettivo interesse economico era stato desunto dal ricarico medio riferito, a campione, ad appena tre o quattro operazioni all’anno.

Gli ermellini, respingendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, hanno confermato che lo sdoganamento dei beni acquistati, nel caso di specie, da un fornitore localizzato ad Hong Kong, era idoneo a provare la concreta esecuzione dell’operazione di acquisto.

Inoltre, sotto il profilo dell’effettivo interesse economico, l’ammontare dei ricarichi medi su operazioni similari, pur se riferito ad un campione limitato, faceva operare l’esimente prevista dalla Legge con conseguente deducibilità dei costi sostenuti.

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