Si deducono i contributi previdenziali esteri
di Comitato di redazioneNella settima giornata del Master Breve abbiamo discusso della tematica della tassazione dei redditi prodotti all’estero; al riguardo, viste anche le recenti esperienze di numerosi soggetti che cercano fortuna fuori dall’Italia (pur mantenendo l’iscrizione alle liste dei residenti), un problema che si poneva con frequenza era quello della determinazione della base imponibile per le remunerazioni percepite oltre confine.
Per la soluzione della questione avevamo avuto un debole aiuto dalla circolare 9/E/2015 (il documento di prassi che si era soffermato sulla determinazione del credito per le imposte versate all’estero) e, proprio come il cacio sui maccheroni, riceviamo esplicita conferma dalla circolare 17/E del 24 aprile scorso.
In particolare, al quesito 4.7 del richiamato documento di prassi, si chiede se il reddito di lavoro dipendente, risultante dalla certificazione rilasciata dal datore di lavoro estero, da indicare nel quadro C debba essere al lordo o al netto dei contributi previdenziali obbligatori versati nello stato estero.
L’Agenzia giunge alla soluzione del quesito richiamando due documenti di prassi:
- la circolare n. 9/E del 2015, ove è stato precisato che “…il reddito estero deve essere assunto nell’ammontare determinato secondo le regole interne relative alle varie categorie, con l’unica eccezione dei redditi dei terreni e dei fabbricati situati al di fuori del territorio italiano che, invece, rilevano – ai sensi dell’articolo 70, comma 2, del TUIR – secondo la valutazione effettuata nello Stato estero”. Pertanto, considerato che l’articolo 51, comma 2, lett. a), del TUIR, in sede di determinazione del reddito di lavoro dipendente, stabilisce, tra l’altro, che “Non concorrono a formare il reddito: … i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge…”, si è dell’avviso che il reddito estero debba essere dichiarato al netto dei contributi previdenziali obbligatori versati nello Stato estero;
- la datata circolare n. 326 del 1997, ove si è affermato che “tenuto conto che il legislatore ha fissato la disciplina dei contributi distinguendo soltanto i contributi obbligatori versati in ottemperanza a una disposizione di legge da quelli che, invece, tali non sono, si deve ritenere che [ai fini della loro deducibilità] sia irrilevante la circostanza che detti contributi, obbligatori o “facoltativi”, siano versati in Italia, sempreché le somme e i valori cui i contributi si riferiscono siano assoggettate a tassazione in Italia”.
Tutto bene, dunque, per quanto attiene i contributi previdenziali, in merito ai quali si è ricevuta una auspicata conferma che, peraltro, appariva quasi obbligata per non correre il rischio di violare concetti di discriminazione territoriale sulla produzione di imponibili.
Il primo richiamo, tuttavia, ci dà l’occasione di puntualizzare che la determinazione del reddito estero, secondo le regole vigenti in Italia, potrebbe essere difficoltà di non poco conto.
Infatti, vi sono all’interno dell’articolo 51 del TUIR disposizioni che potrebbero essere per nulla allineate con quelle straniere, così come vi potrebbero essere delle regole vigenti nel paese straniero che vadano ad esentare o ridurre la rilevanza fiscale di talune componenti della retribuzione.
Anche il criterio stesso di attribuzione temporale delle retribuzioni, con i meccanismi del conguaglio e della cassa allargata sino al 12 gennaio dell’anno successivo a quello di riferimento, potrebbero essere delle tecniche per nulla in uso nel paese straniero (e ciò potrebbe rivelarsi pericoloso nel caso di utilizzo di una certificazione riepilogativa annuale non sempre decifrabile in modo certo e preciso).
In linea di principio, pur avendo richiamato le corrette regole vigenti, non possiamo che riscontrare, in molti casi, delle evidenti difficoltà di natura sistematica nel ricostruire le poste richieste dall’amministrazione, con la conseguenza che ci pare ragionevole (sia pure se non fondamentalmente corretto) limitare l’analisi operativa alla certificazione rilasciata dal datore di lavoro straniero, quantomeno per rimanere ancorati a dati di natura oggettiva.
Va anche rammentato, al riguardo, che la tassazione in Italia potrebbe generare ulteriori difficoltà nel caso in cui la remunerazione non fosse esplicitata in euro, ma in diversa valuta.
In tal senso, l’articolo 9 del TUIR, al comma 2, prevede che “per la determinazione dei redditi e delle perdite, i corrispettivi, i proventi, le spese e gli oneri in valuta estera sono valutati secondo il cambio del giorno in cui sono stati percepiti o sostenuti o del giorno antecedente più prossimo e, in mancanza, secondo il cambio del mese in cui sono stati percepiti o sostenuti”.
Proprio per il caso del reddito di lavoro dipendente, erogato normalmente con periodicità mensile, si pone il problema della corretta applicazione del tasso di cambio; la difficoltà, peraltro, insorge non solo per quanto incassato ma, in virtù delle precisazioni di cui sopra, anche per i contributi previdenziali che rappresentano onere deducibile.
Questi ultimi, normalmente, non sono pagati direttamente dal dipendente, bensì trattenuti dalle somme della retribuzione periodica, con la conseguenza che si potrebbe sostenere la possibilità di utilizzo di un unico cambio sul netto percepito.
Anche in tale ipotesi semplificatoria, tuttavia, non sempre è noto il giorno esatto dell’incasso, con la conseguenza che si potrebbero proporre ulteriori difficoltà di ordine pratico.
Confidiamo, comunque, che non vi siano accanimenti in relazione al cambio utilizzato, dovendosi normalmente trattare di differenze di poco conto.