Società di comodo: solo se non svolgono attività
di Giovanni ValcarenghiNuovo scossone dalla giurisprudenza di merito in tema di società di comodo.
Dopo una prima saetta giunta dalla CTR di Milano (sentenza 486 del 26-01-2016), anche i Giudici fiorentini assestano una ulteriore “pugnalata” all’intero sistema della legge 742/1994 (CTR Firenze, sentenza 512 del 15—3-2016).
Nell’uno e nell’altro caso si rinviene un tratto comune, che esula e prescinde da ulteriori questioni legate alle specifiche vicende processuali: non si deve “scomodare” il regime delle società di comodo (per mancanza di ricavi o per reiterazione di perdite fiscali) ogni qual volta le performances dell’ente non celino una intestazione fittizia dei beni, giuridicamente ascrivibili alla società me nella realtà utilizzati dai soci.
Queste conclusioni basterebbero a rendere del tutto accettabile (in quanto poco pericoloso) un sistema che fa acqua su tutti i fronti.
La irrazionalità del regime, infatti, si spiega nel modo che segue:
- da un lato risulta tecnicamente inaccettabile in quanto la richiesta di produzione di un ammontare minimo di ricavi viene ancora oggi fondata (dopo decenni di applicazione) su parametri matematici del tutto inconferenti con quelli normalmente applicabili oggi sul mercato;
- per altro verso attribuisce di per sé un sapore patologico alla circostanza della reiterazione di perdite fiscali, omettendo la basilare considerazione che le medesime potrebbero essere il risultato di una cattiva gestione oppure di una diffusa crisi di mercato;
- infine, utilizza le troppo facili “scorciatoie” concesse al Fisco italiano in tema di accertamento, attribuendo carattere di violazione a semplici circostanze che potrebbero essere ben spiegate. Peraltro, nonostante l’Amministrazione finanziaria disponga dei necessari strumenti e dell’appoggio di una giurisprudenza che non sempre pare equilibrata e tempestiva (basterà evocare il caso simile degli studi di settore, ove si dovette attendere l’anno 2009 per riscontrare che semplici calcoli matematici difficilmente possono – da soli – costituire l’ossatura e la motivazione di un avviso di accertamento), ribalta sul contribuente l’onere di dimostrare la correttezza della propria posizione.
Detto ciò, si accoglie con favore il consolidarsi di un indirizzo giurisprudenziale che, prima di ogni altra cosa, si interroga sulla finalità dello strumento: perché fu introdotto il regime nel lontano 1994? Forse, rispondendo a tale quesito si potrebbe applicare in modo più razionale il disposto normativo, riscontrando che la volontà del legislatore era quella di contrastare (giustamente) la diffusa abitudine di intestare dei beni a società (appunto di comodo), continuando a conservarne il godimento. In tal caso, siamo tutti concordi che non si debba accordare alcuna tutela a simili situazioni, ma basterà attaccare la società con la censura in merito al comportamento antieconomico per punire coloro che sono fuori rotta.
Valorizzando tali argomentazioni, nel caso della CTR di Firenze si è semplicemente riscontrato (corsivo non letterale) che la società ricorrente non pare possa essere qualificata come società di comodo in quanto risulta dalla documentazione prodotta che la stessa svolge attività di impresa, con la presenza delle relative autorizzazioni amministrative, con registri di presenza nei quali sono annotati i nominativi dei turisti stranieri e italiani che hanno frequentato la struttura, con personale dipendente. Tali indicatori (e questo ci piace parecchio), escludono che la società sia stata creata ai fini evasivi e/o elusivi.
Nel caso della sentenza di Milano, invece, si afferma che “Circa la violazione e falsa applicazione dell’art. 30, legge 724/1994, si aggiunge a quanto sopra esposto che la società ha dimostrato di aver svolto una effettiva attività economica, che non sussisteva quale strumento al fine di garantire vantaggi fiscali ai propri soci e che la congruità dei canoni di locazione non è stata confutata fondatamente e probatamente dall’Ufficio. I parametri OMI riguardano abitazioni, uffici, capannoni, quindi non sono utilizzabili con riferimento agli immobili locati dalla società. Per di più, con riferimento alla fattispecie, che ci occupa, in molti casi vi sono contratti d’affitto d’azienda e spesso l’affittuario non è disponibile a corrispondere canoni maggiori rispetto a quelli contrattualmente pattuiti all’origine, senza alcun motivo economico. Pertanto il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo risulta illegittimo e l’appello della società va accolto”.
Posto che il tema del regime delle società di comodo pare essere nell’agenda del legislatore per una profonda revisione (ovviamente da raccordare con le esigenze di copertura), si confida che si tenga conto di questa evoluzione giurisprudenziale e, soprattutto, della circostanza per la quale non risulta per nulla intuitivo, logico e corrispondente a quanto normalmente accade, il fatto che la presenza di un bene debba generare – per forza – un certo ammontare di ricavi. La “anormalità” del principio risulta ancor più evidente se si considera che il test di operatività viene svolto sui valori di bilancio, con la conseguenza che (ad esempio) un immobile con medesime caratteristiche richiede più o meno ricavi a seconda del momento in cui fu acquistato e del prezzo che fu pagato (magari con la differenza che deriva solo dalla circostanza per cui un acquisto è avvenuto ad IVA – con imposta detraibile – e l’altro a registro, con imposta da cumulare al valore del cespite).
I tempi sembrano essere maturi, l’occasione sembra essere presente ed attuale: noi incrociamo le dita e continuiamo a sperare che, da un lato, il problema venga risolto alla radice e, nell’attesa, che la giurisprudenza rafforzi l’orientamento qui segnalato.