Società tra professionisti sulla rampa di lancio
di Michele D’Agnolo
Le società tra professionisti non sono certo una novità. Dopo dibattiti ultra trentennali, la loro regolamentazione civilistica è stata repentinamente calata nel nostro ordinamento da un paio d’anni, su iniziativa dell’allora governo Monti. Da metà del 2013 infine, è uscito il decreto ministeriale attuativo. Guardando alle statistiche del Registro delle Imprese, di società tra professionisti non ne sono però nate molte. E non si possono biasimare i professionisti per l’avversione manifestata per il metodo e per i contenuti della riforma, che si caratterizza per una scarsa tutela della componente intellettuale rispetto a quella capitalistica.
A ben vedere però il principale ostacolo alla diffusione del nuovo strumento giuridico è stato rappresentato dall’incertezza del trattamento fiscale e previdenziale dei redditi generati.
In questi giorni le indiscrezioni della stampa specializzata dicono che nel primo pacchetto della semplificazione fiscale approvata dal governo Renzi, sarà finalmente risolto l’annoso problema del reddito delle società tra professionisti, che sarà considerato – almeno per il momento – reddito di lavoro autonomo. Dico per il momento perché l’impostazione durerà ragionevolmente solo fino a quando il reddito di tutte le attività economiche, professionali e imprenditoriali verrà sotto il profilo della base imponibile definitivamente equiparato.
L’intervento legislativo in esame dovrebbe, di sponda, fare chiarezza anche sul regime previdenziale degli utili e dei fatturati ascrivibili ai soci professionisti.
Rimane ancora qualche incertezza sull’applicazione dell’IVA ai conferimenti di clientela, ma questa questione potrebbe a mio avviso essere abbastanza agevolmente risolta in senso negativo in via interpretativa, leggendo con attenzione nelle pieghe delle direttive europee istitutive dell’imposta. Risolvibile in via interpretativa anche il trattamento dei redditi dei soci di capitale, che ovviamente non lavorano e professionisti non sono.
In ogni caso, molti professionisti hanno tenuto finora le loro STP fondate e inattive o hanno serbato la bozza di statuto nel cassetto in attesa di questa novità. Troppi invero i rischi fiscali di una falsa partenza ritrovandosi poi sanzionati per aver errato regime contabile e impositivo. Ora è arrivato invece un momento favorevole all’applicazione dello strumento anche dal punto di vista gestionale.
La generalizzata riduzione del giro d’affari e degli utili degli studi professionali avvenuta negli ultimi tempi ha infatti messo a nudo alcune inefficienze che si ritiene di poter gestire più facilmente in via sinergica.
Inoltre, in molti studi e in particolare in quelli di minore dimensione, è venuta progressivamente a mancare la massa critica minima per gestire all’interno determinate funzioni. Uno studio che ha tre impiegate e subisce gli effetti della crisi potrebbe ripartire magari ricontrattando tre part time da mezza giornata oppure mantenendo un impiegata full time e una part-time, ma uno studio che aveva in partenza un solo impiegato a mezzo servizio non riesce più a razionalizzare i propri costi senza rimanere del tutto privo di collaboratori. Ancora, vi sono una serie di costi fissi o quasi rispetto alla dimensione dello studio, che possono essere razionalizzati.
Ma soprattutto oggi è richiesto a tutte le professioni giuridico-economiche un profondo cambiamento nei sistemi informativi, che sono la sola fonte di ulteriore efficienza ancora attivabile. Questo utilizzo spinto di information technology richiede investimenti di un certo rilievo. Occorre innanzitutto fare una seria e severa software selection, basata su requisiti oggettivi e non sugli umori della signora Pina, la nostra storica capo contabile. D’altro canto non possiamo nemmeno ascoltare acriticamente tutto quello che ci dicono i venditori: il cloud, ad esempio, non è “buono di per sé” perché potrebbe ad esempio rallentare in modo sostanziale i nostri processi di input. Cambiando il software, spesso serve mettere mano anche all’hardware, che va aggiornato. Occorre poi pagare per un anno due licenze, quella del software entrante e quella del software uscente. Poi c’è il dramma delle conversioni dei dati. I professionisti che lo hanno vissuto sono già in odor di santità. Occorrono infine innumerevoli ore di formazione e di più lento lavoro per imparare il nuovo sistema, il cui ammontare è meglio non monetizzare se non si vuole rinunciare al progetto in anticipo. Tutti questi esborsi vanno visti come investimenti e quindi hanno un senso se avranno un ritorno più che adeguato negli anni a venire.
Al di là dell’avversione al rischio, non sempre uno studio ha di questi tempi la possibilità di affrontare simili cifre autofinanziandosi o facendo ricorso al credito bancario. E quindi aumentare il numero dei professionisti che fanno colletta può essere un modo per affrontare il problema. Anche approcciare un socio di capitali o direttamente associare la propria software house, che conferisce attrezzature e programmi, non sono più dei taboo. In altri casi saranno le banche a voler acquisire quote di minoranza di studi professionali. Di quelli più blasonati per recuperare parte dell’utile sulle operazioni di merger e acquisition che già magari gli segnalavano. Ma anche di quelli di posizionamento più basso per offrire servizi nuovi fidelizzanti e differenzianti ad una clientela per la quale già gestisce il flusso informativo della parte finanziaria.
Ci sono infine le “proposte indecenti” che ci vengono dai nostri grandi clienti, che puntano ad esercitare sui propri studi di riferimento un controllo di fatto ancora maggiore di quello attuale. Anche le università, che oggi ad esempio consentono discrezionalmente ai loro cattedratici di svolgere esternamente la libera professione di commercialista o di architetto, potrebbero richiedere di entrare a far parte dell’azionariato dello studio, per vedersi retrocesso almeno in parte il significativo contributo di immagine che il professionista ritrae dall’incarico universitario. Studi di avvocati potrebbero entrare nel capitale di studi commerciali mentre notai potrebbero diventare soci di capitale in studi legali o commerciali. E, posto che in molti tipi societari è consentito di affidare l’amministrazione anche a persone giuridiche, si potranno creare – con la fantasia che ci contraddistingue – molti altri ircocervi. Nel bene o nel male, le STP sono arrivate sulla rampa di lancio. Ne vedremo delle belle.