Spese di pubblicità e di rappresentanza: la giurisprudenza “recente”
di Roberto CurcuNegli ultimi anni la Corte di Cassazione ha emanato diverse sentenze che riguardano la distinzione tra le spese di pubblicità e quelle di rappresentanza, assumendo oramai una posizione che pare consolidarsi a danno del contribuente.
Indipendentemente dai criteri di deducibilità dei costi – per i quali potrebbe non esserci tutta questa differenza di una eventuale riqualificazione – il problema sta nella detrazione dell’Iva, posto che tale imposta è indetraibile sulle spese di rappresentanza, come definite ai fini delle imposte dirette.
Le “recenti” sentenze di Cassazione, in particolare, hanno statuito che il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obiettivi perseguiti, atteso che le prime sono sostenute per accrescere il prestigio della impresa senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, se non in via mediata e indiretta attraverso il conseguente aumento della sua notorietà e immagine, mentre le seconde hanno una diretta finalità promozionale di prodotti e servizi commercializzati, mediante l’informazione ai consumatori circa l’esistenza di tali beni e servizi, unitamente all’evidenziazione e all’esaltazione delle loro caratteristiche e dell’idoneità a soddisfarne i bisogni, in modo da incrementare le relative vendite” (Cass. n. 10440/2021, Cass. n. 6540/2022, Cass. n. 13221/2022).
La “recentissima” ordinanza di Cassazione n. 14049/2023 sottolinea nuovamente che la distinzione tra le spese di rappresentanza e quelle di pubblicità risiede nella diversità, anche strategica, degli obiettivi, atteso che le prime servono per accrescere il prestigio e l’immagine della società, mentre le seconde servono per pubblicizzare prodotti, marchi e servizi, e si collocano in rapporto diretto con l’incremento delle vendite; in sostanza, se non c’è incremento delle vendite, la spesa non potrebbe essere di pubblicità.
Questo ultimo concetto – secondo la Corte di Cassazione – si rileverebbe anche dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (Causa C-334/20).
Premettiamo che la Cassazione ha un orientamento diverso da quello espresso dal Ministero delle Finanze con la risoluzione 137/2000, con la quale venne fatto notare che “le campagne pubblicitarie sono sempre più rivolte non tanto a reclamizzare il prodotto come tale, quanto a far sì che l’impresa venga percepita come un elemento indispensabile allo sviluppo della comunità socio-politica in cui è inserita. La pubblicità legata unicamente al prodotto ha perso i connotati tipici che l’avevano da sempre caratterizzata nel senso cioè di dover essere razionale e convincere che un prodotto è buono e conveniente. Nuovo modo di concepire una pubblicità del “sociale” piuttosto che una pubblicità del “prodotto” può essere ravvisato in quello che nella terminologia anglosassone viene definito cause related marketing (crm). Termine con il quale si intende una nuova tecnica pubblicitaria – rivolta ai consumatori-cittadini più che ai consumatori clienti – che consiste nel valorizzare un marchio o nel lanciare un prodotto destinando risorse predeterminate o percentuali di ricavi, al restauro di un’opera d’arte o al finanziamento di una struttura pubblica o ancora nell’abbinare il proprio marchio a un’iniziativa di solidarietà sociale o ad un progetto di interesse collettivo.
Alla luce di quanto sin qui esposto, si può senz’altro affermare che tra i criteri da seguire per poter distinguere tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza, si rileva sempre meno efficace quello incentrato sul collegamento diretto tra pubblicità del prodotto e ricavo, dal momento che, come visto, il prodotto ha cessato di essere l’unico obiettivo della pubblicità stessa, per cedere il posto ad altre strategie commerciali legate all’immagine “sociale” di un’azienda”.
La Cassazione non deve ovviamente adeguare il proprio orientamento a quello del Ministero delle Finanze, ma non si può notare, tuttavia, come in Cassazione ci si arriva, sulla questione, perché è l’Agenzia delle Entrate che – con rilievi prima – e con appelli dopo, fa giungere la questione alla Cassazione adottando comportamenti non conformi a quanto espresso dalla prassi (che per i funzionari dovrebbe essere vincolante).
Prima che – tuttavia – si consolidi anche nella dottrina l’idea che la distinzione tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza sia da valutare secondo i criteri dettati dalla Cassazione, è opportuno precisare che tali sentenze hanno tutte ad oggetto annualità antecedenti al D.M. 19.11.2008, quando una definizione normativa di “spese di rappresentanza” non esisteva.
Tale Decreto ha fornito la definizione di spese di rappresentanza, indicando casistiche positive e negative, ma fornendo il principio generale che le spese di rappresentanza sono erogazioni “a titolo gratuito”.
In sostanza, ogni erogazione effettuata dietro un impegno del soggetto erogante a svolgere una prestazione a favore dell’erogante, per gli anni attualmente accertabili, non può essere qualificata come spesa di rappresentanza ma – eventualmente – la detrazione dell’Iva potrebbe essere contestata per mancanza di inerenza.
Sul punto, peraltro, la Sentenza della Corte di Giustizia Europea C-334/20 non precisa – come sembrerebbe emergere dalla lettura della Cassazione del 2023 – che la spesa di pubblicità sussiste solo quando vi è una “diretta aspettativa di ritorno commerciale”; inoltre, tale sentenza europea, limita le possibilità per l’Amministrazione finanziaria di quantificare l’inerenza delle stesse.
La Corte, nello specifico, doveva giudicare su spese di pubblicità che l’Amministrazione fiscale riteneva troppo onerose rispetto al ritorno commerciale, e statuisce che il giudice può contestare la detrazione non in base ad una presunta eccessiva onerosità della spesa, ma solo quando sia dimostrato che “la spesa sostenuta in tale occasione si riveli priva di qualsivoglia carattere professionale e di qualsivoglia nesso con l’attività economica della suddetta impresa”.