Spetta all’ente dimostrare l’effettiva idoneità del Modello 231
di Luigi FerrajoliAncora una volta, la Cassazione, con la sentenza n. 28557 dell’8 luglio 2016, torna a pronunciarsi su un episodio di infortunio sul lavoro, sviscerando le problematiche circa i profili di responsabilità del datore di lavoro e ponendo l’attenzione sulla necessità di implementare un sistema di prevenzione idoneo a salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
In tali ipotesi è inevitabile interrogarsi se sia attribuibile all’Ente una responsabilità penale ex D.Lgs. 231/2001 per non aver adottato tutte le precauzioni necessarie allo scopo di prevenire il verificarsi a suo interesse o vantaggio, dei reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commessi in violazione delle norme poste a tutela della salute e sicurezza sul lavoro di cui all’articolo 25 septies del citato decreto.
Nel caso di specie, i giudici di merito hanno dichiarato colpevole di lesioni colpose aggravate, ai sensi degli articoli 590 c.p., 583 c.p., comma 1, n. 1, e 113 c.p., il datore di lavoro dell’azienda poiché, per negligenza, aveva omesso di compiere l’adeguata manutenzione delle attrezzature da lavoro al fine di renderle idonee a svolgere le funzioni per le quali erano destinate, cagionando lesioni gravi personali al lavoratore. Quest’ultimo, mentre inseriva nella macchina laminatrice, priva del sistema di sicurezza necessario, fogli di cartone per l’incisione delle apposite linee di piegatura, scivolava ed agganciava il piede sinistro al rullo in movimento che lo strascinava recandogli la perdita cutanea all’avampiede e al dorso del piede sinistro con fratture alle falangi delle dita, per un periodo di malattia superiore a 63 giorni.
La Corte di Appello ha inoltre ritenuto l’Ente responsabile ai sensi dell’articolo 25 septies del decreto in quanto al tempo dell’episodio risultava essere privo di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire ipotesi di reato della specie di quello verificatosi.
L’imputato ha contestato che, in realtà, i giudici di merito avrebbero omesso di tener conto che il modello di organizzazione sarebbe stato depositato presso l’azienda prima del fatto e che pertanto l’Ente avrebbe dovuto non considerarsi responsabile per il comportamento posto in essere dal lavoratore che inoltre, secondo le argomentazioni presentate dal ricorrente, già da tempo lavorava presso l’azienda e che pertanto avrebbe potuto, con l’esperienza maturata negli anni, evitare l’accaduto osservando maggiore accortezza.
Sul punto, la Cassazione ha colto l’occasione per richiamare quanto già espresso dalla sentenza ThysseKrupp (Cass. Pen. 38343/2014) la quale ha ribadito che ai fini dell’imputazione del reato commesso dalla persona fisica in capo all’Ente occorre che il fatto sia stato realizzato nell’interesse o a vantaggio dell’Ente medesimo.
Sul tema, si ricorda come tali requisiti devono essere considerati “alternativi e concorrenti tra di loro, esprimendo il criterio dell’interesse una valutazione del reato di tipo teleologico, apprezzabile ex ante, al momento cioè del fatto secondo un giudizio soggettivo e avendo, invece, quello del vantaggio una connotazione eminentemente oggettiva, valutabile ex post sulla base degli effetti derivanti dalla realizzazione dell’illecito” e che, con riferimento ai reati colposi previsti dall’articolo 25 septies del decreto, essi devono essere intendersi riferiti alla condotta e non all’evento.
In tal caso, l’omissione da parte del datore di lavoro di provvedere alla predisposizione degli opportuni presidi antinfortunistici si giustifica in base ad una scelta compiuta allo scopo di non sopportare i dovuti costi derivanti dalla manutenzione delle attrezzature.
La Cassazione ha precisato che la mera adozione da parte dell’azienda del modello di organizzazione e gestione non è sufficiente per esimere l’Ente da ogni responsabilità amministrativa per il fatto commesso, in quanto ad essa spetta provare l’idoneità di tale modello a prevenire efficacemente le fattispecie di reato pari a quelle contestate.
Incombe pertanto sull’Ente “l’onere di dimostrare l’idoneità di tali modelli di organizzazione e gestione a prevenire reati della specie di quello verificatosi”, aggiungendo che tale onere non può certamente ritenersi assolto “attraverso la sola circostanza dell’esistenza di tale modello, non avendo la parte chiarito se esso contemplasse l’adozione delle misure di sicurezza mancanti”.
Ciò non fa altro che richiamare alla mente le considerazioni di recente compiute dal CNDCEC nel documento “Principi di redazione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. 231/2001” nel quale si è posto l’accento sulla necessità che il modello organizzativo sia “customizzato” ossia che sia adottato tenendo conto delle peculiarità della struttura organizzativa presente nell’Ente e delle attività aziendali dal medesimo svolte, non potendo altrimenti esplicare la sua naturale funzione esimente qualora risulti vago e generalizzato nella descrizione delle attività e nella definizione dei protocolli posti a presidio delle stesse.
Da ultimo, si ricorda che non è sufficiente che l’Ente provveda alla mera implementazione del modello ma occorre altresì che ne garantisca la piena ed effettiva attuazione mediante la nomina di un apposito Organismo di Vigilanza e la predisposizione di efficaci meccanismi di controllo che monitorino costantemente sulla concreta osservanza delle prescrizioni in esso contenute da parte di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nella gestione aziendale.
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