Split payment: proroga con scappatoia
di Roberto CurcuOggi, 1° luglio 2020, a rigore di norma lo split payment non esiste più. Tornerà in vigore? Probabile. Con efficacia “retroattiva”? Probabile. Andiamo con ordine.
Lo split payment è un meccanismo di applicazione dell’Iva che si discosta da quelli previsti dalla Direttiva 112/2006, e come tale deve essere autorizzato dal Consiglio d’Europa per essere efficace.
L’articolo 17-ter del Decreto IVA, prevede infatti che tale meccanismo si applica fino alla scadenza della misura speciale di deroga rilasciata al Consiglio d’Europa.
L’Italia chiese la prima volta al Consiglio di Europa una deroga per applicare lo split payment nelle operazioni verso la pubblica amministrazione effettuate a partire dal 1° gennaio 2015 assicurando che non avrebbe chiesto la proroga della misura di deroga.
Puntualmente, lo Stato italiano chiese la proroga, e con Autorizzazione 2017/784 arrivò la seconda deroga, scaduta il 30 giugno, che coinvolgeva le pubbliche amministrazioni, le società controllate dalle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’articolo 2459 cod. civ., e società quotate in borsa incluse nell’indice FTSE MIB.
Pur se già nel 2019 era chiaro che lo Stato intendeva chiedere la proroga della misura, solo il 27 marzo 2020 è stata chiesta definitivamente una ulteriore proroga; ad oggi siamo a conoscenza del parere rilasciato dalla Commissione Europea al Consiglio, con il quale si suggerisce a quest’ultimo di concedere la proroga della misura fino al 30 giugno 2023.
Probabilmente la proroga sarà concessa, e nelle more, si ritiene opportuno continuare a fatturare con lo split payment; qualora il Consiglio si dovesse discostare dal parere della Commissione Europea e non concedesse la proroga, si faranno le dovute rettifiche.
La Commissione rileva che non è stata effettuata una consultazione con i portatori di interessi; a riguardo, è noto come lo split payment dreni liquidità alle imprese, ed i frutti del recupero legati a questa misura sono incerti.
La Commissione, quindi, si è basata solo sulle informazioni ricevute dallo Stato italiano, che dipingono una realtà che molti non potrebbero non vedere: le domande di rimborso sono trattate in 67 giorni e liquidate dopo ulteriori 7, non si conosce l’efficacia di recupero della fattura elettronica, la certificazione dei corrispettivi è appena partita (peccato che nulla abbia a che fare con lo split payment).
Quanto al motivo per cui lo split payment debba coesistere con l’obbligo generalizzato di fattura elettronica, che consente all’Agenzia delle Entrate di intercettare i soggetti che emettono fatture senza versare la relativa imposta, lo Stato italiano evidenzia che la fattura elettronica consente di scoprire chi incassa l’Iva e non la versa solo dopo 3 mesi dall’emissione della stessa (ci si riferisce evidentemente ai contribuenti trimestrali); per Stato italiano deve essere quindi molto frequente il fenomeno di chi emette fattura alla PA ed entro 90 giorni riesce ad incassarla, e a rendersi insolvente nello stesso termine.
Infine, scopriamo lo Stato preoccupato per le imprese, che non sarebbero state pronte ad un epocale cambiamento dei software contabili!
Oltre al problema che genera lo split payment in termini di liquidità, il problema ancora più odioso che può capitare è quello di vedersi contestato il pagamento dell’Iva e delle relative sanzioni, per aver emesso una fattura con indicata una imposta inferiore a quella dovuta alla PA; fattura che, se emessa correttamente, la PA stessa avrebbe rifiutato.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, la “colpa” di tale comportamento ricade sempre sul fornitore, e gli uffici territoriali irrogano addirittura le pesanti sanzioni proporzionali, in luogo di quelle fisse previste in caso di violazioni che non incidono sulla corretta liquidazione del tributo.
Il problema non è stato risolto dal Parlamento, al quale era stata presentata una mozione per prevedere la non sanzionabilità del comportamento di chi si era adeguato alle richieste della Pubblica Amministrazione, e non lo è stato dal Governo, il quale è da dicembre 2018 che dovrebbe pubblicare un decreto con il quale inibisce alla pubblica amministrazione di rigettare per tali motivi le fatture.
La soluzione a questo caso, tuttavia, è stata recentemente risolta dalla risposta ad interpello n. 109 del 20 aprile 2020.
Il caso è quello di una società che vuole emettere fatture con Iva ad un ente pubblico, e questo continua a rifiutarle in quanto ritiene che vada applicata la non imponibilità ai sensi dell’articolo 9.
Il contribuente chiede che comportamento deve adottare, in quanto considera la propria fattura non emessa, e ritiene di essere passibile di sanzioni. La conclusione dell’Agenzia è che “Ai fini dell’emissione non rileva, dunque, l’eventuale successivo scarto del documento da parte della PA”.
In primo luogo, questa risposta chiarisce che nel caso in cui una fattura venga scartata dalla PA, a questo punto risulta logico, prima di emettere una nuova fattura con nuovo numero ed una nota di credito che rettifichi la fattura scartata; nota di accredito che verrà a sua volta scartata dalla PA destinataria.
Ciò che più interessa le imprese che non riescono ad emettere fatture corrette alla PA, pena scarto delle stesse e quindi l’impossibilità di incassare il corrispettivo, è che seguendo la logica della risposta ad interpello, la procedura da seguire potrebbe essere quella di emettere la fattura alle aliquote inferiori richieste della PA, ed una nota di variazione in aumento per la differenza di imposta, che la PA scarterà. Secondo la logica della risposta, la colpa del minore versamento di Iva ricadrà solo sulla PA.