Sponsorizzazione: antieconomica quindi non inerente?
di Guido MartinelliMattia CornazzaniAccade con frequenza di osservare che l‘Amministrazione finanziaria proponga contestazioni in merito alla deducibilità delle spese di sponsorizzazione, sulla base della semplice presunzione di antieconomicità delle stesse. L’ormai consolidato inter argomentativo dell’Ufficio, riproposto in numerosi avvisi di accertamento, parte da una discrezionale valutazione quantitativa delle somme destinate dal contribuente alla sponsorizzazione e, desunta l’antieconomicità dell’operazione alla luce del rapporto tra spese e ricavi, giunge ad escludere la sussistenza del requisito dell’inerenza (art. 109 TUIR).
In particolare pare opportuno sottolineare che, altrettanto spesso, nella parte “motivazioni” dei propri avvisi di accertamento l’amministrazione finanziaria ha cura di precisare che delle suddette operazioni non è affatto contestata l’effettiva esistenza, della quale non v’è dubbio alcuno, bensì la sola relazione tra l’importo costituente la sponsorizzazione e l’esiguità del beneficio a favore dello sponsor, di fatto riducendo il tutto ad una sproporzione algebrica.
In concreto e senza alcuna pretesa di esaustività, si può riscontrare che l’Ufficio sia portato a ravvisare l’antieconomicità della spesa di sponsorizzazione:
- in presenza di un investimento a cui non sono riconducibili coerenti incrementi nel volume dei ricavi;
- in presenza di una spesa per attività promozionale condotta in ambito ristretto ed indirizzata ad un bacino di potenziali clienti di scarsa entità;
- in presenza di un’operazione promozionale condotta in un ambito territoriale e merceologico non appartenente a quello tipico con riferimento all’attività dello sponsor.
Presso la Corte di Cassazione ha preso corpo l’orientamento per cui, “in applicazione del principio dell’abuso del diritto, l’Amministrazione finanziaria può dedurre l’antieconomicità quale indizio di (…) non esistenza dell’inerenza (…)” [ex plurimis: Cass. civ. Sez. V, 27/09/2013, n. 22132].
Sul punto si riscontra un’autentica spaccatura tra giudici di legittimità e merito: nelle Commissioni Tributarie prevale l’orientamento – ben più condivisibile – per cui, se il contribuente fornisce la prova della certezza e dell’esistenza dell’operazione, l’Amministrazione non può contestarne l’antieconomicità e, quindi, la non inerenza sulla base di sole presunzioni. Tale principio è chiaramente desumibile dalla lettura integrata delle Sentenze della CTP Mantova n. 191/13 pronunciata in data 10.10.2013 e depositata in data 14.10.2013, e n. 114/13 pronunciata in data 11.04.2013 e depositata in data 30.04.2013.
In entrambi i casi la Commissione Tributaria, in accoglimento delle richieste di parte ricorrente, annullava gli avvisi di accertamento emessi dall’Amministrazione finanziaria rilevando che: il contribuente aveva fornito la prova della certezza dell’operazione; la spesa sostenuta era da ritenere inerente in quanto idonea a procurare allo sponsor un’utilità, ancorché indiretta e potenziale, in termini di immagine; l’Amministrazione non poteva contestare un investimento, definendolo antieconomico e, quindi, non inerente, rilevando a posteriori il mancato raggiungimento di risultati positivi e coerenti in termini di ricavi.
In piena adesione alle conclusioni della Commissione mantovana pare opportuno sottolineare due ulteriori e conseguenti considerazioni.
In primo luogo, da un punto di vista logico ancor prima che giuridico, l’orientamento standardizzato dall’Amministrazione finanziaria alla contestazione delle spese di sponsorizzazione deve ritenersi incongruente. Del resto, l’antieconomicità è un concetto che presuppone l’inerenza: nel momento in cui si sostiene che una spesa è eccessiva, si accetta pacificamente che questa sia inerente. Diversamente, per assurdo, la contestazione dell’antieconomicità è priva del suo necessario parametro di riferimento: “eccessivo rispetto a cosa?”. In tal senso, la conclusione accettabile è una sola: la spesa antieconomica può essere considerata tale in quanto inerente.
In secondo luogo, dal punto di vista prettamente giuridico, occorre rilevare che – in assenza di ulteriori parametri individuabili dalle norme o dalla prassi – l’art. 90 c. VIII L. 289/02 stabilisce in maniera chiara ed inequivocabile che “Il corrispettivo in denaro o in natura in favore di società, associazioni sportive dilettantistiche e fondazioni costituite da istituzioni scolastiche, nonché di associazioni sportive scolastiche che svolgono attività nei settori giovanili riconosciuta dalle Federazioni sportive nazionali o da enti di promozione sportiva costituisce, per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spesa di pubblicità, volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario, ai sensi dell’articolo 74, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi”.
Pertanto, in forza di tale presunzione assoluta, deve ritenersi che – entro la soglia individuata dalla norma – in presenza di un’operazione contabilmente documentata, non possa in alcun modo trovare spazio una contestazione di non deducibilità della spesa, inerente alla natura, all’entità od all’esito della scelta imprenditoriale.