Stop all’esecutività della sentenza se il creditore è in concordato? Ordinanza Tribunale di Palermo del 14.4.2014
di Claudia MariniClaudio Ceradini
La recente ordinanza del Tribunale di Palermo del 14.4.2014 ha riaperto un dibattito, mai sopito, sulla rilevanza del requisito dell’insolvenza ai fini della sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, di cui all’art. 283 c.p.c., aggiungendo un elemento ulteriore di incertezza allo sviluppo delle operazioni di liquidazione concorsuale, che già patiscono di diverse ed insidiose debolezze.
Il caso è il seguente: una società in concordato preventivo ottiene l’emissione di decreto ingiuntivo nei confronti di un debitore, che si oppone. Il Giudice di Pace respinge l’opposizione. Il debitore ricorre contro la decisione, ed il Tribunale la capovolge, a suo favore, accogliendo la richiesta di inibitoria, sospendendone la provvisoria esecutività, sul presupposto proprio che il creditore fosse in concordato preventivo. Il Tribunale di Palermo è arrivato pertanto a statuire che la pendenza di una procedura concorsuale, ancorché a carico della società creditrice, giustifica la concessione della sospensiva, impedendo così alla procedura di attivare le azioni esecutive conseguenti.
Trattasi di una pronuncia che, se trovasse consolidamento, non potrebbe che compromettere significativamente la possibilità delle procedure concorsuali di attivare le azioni esecutive normalmente disponibili nei confronti di creditori in bonis, con evidenti conseguenze in termini di solidità dei piani concordatari.
Per comprendere la questione, va premesso che il senso di queste prese di posizione è quello di evitare alle società debitrici di subire azioni esecutive, in pendenza di giudizio, a favore di società che, se successivamente soccombenti nel merito, potrebbero non essere nelle condizioni di restituire la somma esecutata. Il punto è perlomeno discutibile, se non insostenibile. A nulla rileva la circostanza che il creditore sia “in procedura”, dal momento che proprio in questo caso il rischio di danno grave ed irreparabile per il debitore deve essere espressamente escluso, in virtù dell’art. 113 L.F., secondo il quale le somme ricevute dalla procedura per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi, e non ancora passati in giudicato, devono essere trattenute e depositate nei modi stabiliti dal Giudice Delegato. Ancora, appare scongiurato il rischio di irripetibilità delle somme dal momento che l’eventuale credito di restituzione avrebbe natura di credito prededucibile, e come tale sottratto alla falcidia concordataria, ex art. 111 L.F.
Per chiarezza, ripercorriamo rapidamente l’excursus storico dell’istituto. Qual era la sorte delle istanze ex art. 283 c.p.c. prima della pronuncia del Tribunale di Palermo? La norma è stata negli anni oggetto di interventi legislativi, a partire dal lontano 1990, quando l’automatica concessione di efficacia esecutiva a tutte le sentenze fu introdotta con L. 353/90, rispondendo ad una precisa scelta del legislatore, nel duplice intento di conferire maggiore incisività alla decisione giurisdizionale e introdurre un adeguato deterrente rispetto ad impugnazioni infondate e dilatorie.
Al fine di scalfire la provvisoria esecutività di cui gode ex lege la sentenza di primo grado, il legislatore ha da un lato attribuito al debitore la facoltà di proporre, assieme all’impugnazione principale o incidentale, l’istanza di sospensiva finalizzata all’inibizione delle azioni esecutive, ma ha per contro stabilito precisi limiti, contenuti nell’art. 283 c.p.c. Nel testo originario l’art. 283 c.p.c., ai fini della concessione dell’inibitoria, richiedeva solamente la presenza di non meglio specificati “gravi motivi”, rendendo di fatto idonea praticamente qualsiasi doglianza ad inibire la provvisoria esecutorietà di una pronuncia di primo grado. Il più recente intervento del legislatore con la L. 80/2005 introduce la più rigorosa ed attuale formula: “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Tale disposizione è stata concepita quale monito alle Corti d’Appello, quasi a ricordare loro che le sentenze di primo grado sono esecutive ex lege, e non per arbitrio dei giudici di secondo grado, e che la sospensiva deve essere concessa solo in casi eccezionali.
L’inibitoria ex art. 283 c.p.c. richiede due presupposti: la fondatezza, in termini di verosimiglianza, dell’appello, ed il potenziale pregiudizio derivante dall’esecuzione o dalla sua sospensione. La riforma del 2005 ha precisato che i gravi motivi devono essere “fondati”, rendendo più perspicuo il contenuto precettivo della disposizione e maggiormente stringente il controllo che deve effettuare il giudice di seconde cure, prima di concedere la sospensione. Ancora, la valutazione del giudice deve basarsi anche sulla eventuale prevedibile difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato. Infine, quanto al requisito della “possibilità di insolvenza di una delle parti”, il giudice del gravame deve valutare sia l’impossibilità o la difficoltà di recuperare dalla parte vittoriosa in primo grado quanto corrisposto in esecuzione della sentenza, sia l’eventualità che l’esecuzione provvisoria della sentenza renda o contribuisca a rendere insolvente la parte onerata (Si veda fra tutte Cass. Civ. n. 4060 del 25.2.2005). Il riferimento generico del legislatore alla “possibilità di insolvenza” si presta a molteplici interpretazioni, non imponendo, di fatto, limiti precisi al Giudicante. Il Tribunale di Taranto, Sezione II, con ordinanza del 17.2.2014 ha statuito che il Giudice d’Appello può concedere la sospensiva a prescindere dalla ricorrenza del periculum in mora: “Allo scopo è sufficiente che il Giudice d’Appello si avveda soltanto dell’erroneità della decisione del Giudice di primo grado per concedere la sospensiva (difetto del fumus); così ad esempio, in tema di sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro, può essere concessa anche se non ricorre il rischio di insolvenza della parte vittoriosa in primo grado, in ordine alla restituzione delle somme in favore dell’appellante, che dovesse ottenere la riforma della sentenza”.
Quindi? Cosa di fatto implica che una delle parti versi già in stato di insolvenza? L’orientamento delle Corti d’Appello, alla luce dell’art. 113 L.F. che disciplina l’obbligo di accantonamento di somme relative a provvedimenti non passati in giudicato, era quello di negare la richiesta di sospensiva, in assenza di periculum in mora (Corte d’Appello di Salerno, 28.6.2011). Il Tribunale di Palermo, con la pronuncia dell’aprile scorso, ha sicuramente fornito uno spunto diverso da cui partire e soprattutto discutere. E’ presto per parlare di mutamento radicale in tema di concessione della sospensiva in caso di insolvenza dichiarata del creditore, tuttavia, se la giurisprudenza dovesse confermare l’orientamento palermitano, si aprirebbe una nuova frontiera nel mondo dell’inibitoria, e con essa un’altra crepa nella solidità dei piani concordatari, già fragili per molti motivi.