Succede solo da Mc Donald’s?
di Michele D’AgnoloIl calo dei margini e la necessità di stare sul mercato con una clientela che non tollera ulteriori aumenti di costo ci spinge a rivedere costantemente l’organizzazione dello studio, con la nuova ottica dell’efficienza.
Il personale degli studi crede che in realtà la nuova ventata di fordismo in campo organizzativo dipenda soltanto dall’avidità dei titolari e dalla loro incapacità di trovare clienti redditizi. In realtà le professioni sono state vittime di una tempesta perfetta: il percorso normativo che ci ha portati dal decoro al mercato è stato accompagnato dalla più profonda crisi economica dalla seconda guerra mondiale in poi. È troppo facile dare la colpa ai titolari dello studio perché anche il personale ha la sua dose di responsabilità.
In ogni caso, nessuno era pronto a gestire l’efficienza. Anzi, in un mondo di tariffe definite per legge, a nessuno interessava l’efficienza. L’importante, fino a oggi, era fare le pratiche in tempo, cioè entro la scadenza, mentre è da qualche anno diventato importante farle utilizzando il minor numero di risorse possibili.
E allora occorre entrare pesantemente nei microprocessi. Cioè discutere con le persone di ogni loro azione per cercare di efficientarla. Un amico che per mantenersi agli studi ha lavorato nel colosso mondiale del fast food ricorda il suo primo giorno di lavoro: dovendo preparare degli hamburger, li poneva sulla piastra uno ad uno. Intervenne il suo supervisore che gli mostrò come con una sola mossa della mano fosse possibile prelevarne sei dal frigo e distribuirli uniformemente sulla griglia. E guai a te se non lo fai sempre così d’ora in avanti.
Tecniche ben conosciute nel mondo industriale, dove esiste la disciplina tecnica dei tempi e metodi, e da poco sbarcati nel settore dei servizi.
E quindi se la nostra contabile spunta le fatture senza trovare mai errori, non dovrà più spuntare perché svolge una attività inutile. Se la stampante che utilizza si trova troppo lontana dalla sua postazione di lavoro, finirà con l’essere in forma molto più dei conti dello studio.
Entrare nei microprocessi è delicatissimo dal punto di vista personale. Si accede infatti come un elefante in cristalleria nel giardino segreto della dignità professionale di ciascuno, e quindi occorre farlo in punta di piedi.
Spesso il personale è convinto che la lunga permanenza in un incarico equivalga alla professionalità. L’esperienza ha la sua importanza ma nelle crisi epocali è spesso negativa, perché ciò che ci ha portato fin qui non è ciò che ci farà progredire oltre.
Quasi sempre, peraltro, se le persone utilizzano il microprocesso sbagliato c’è un perché. Usano la calcolatrice perché vent’anni fa hanno perso tutti i dati con un software antidiluviano. Digitano con due dita perché non hanno fatto dattilografia. Tengono le fatture distese sulla scrivania perché non dispongono di un leggio. In qualche caso, presi dal logorio della vita moderna, magari non ci siamo accorti che in realtà le loro prestazioni sono almeno in parte sono ridondanti e stanno difendendo il proprio posto di lavoro creando adempimenti inutili e ripetitivi per occupare la giornata.
Trovare il microprocesso più efficace ed efficiente tra quelli possibili è molto più difficile di quanto potrebbe sembrare a prima vista.
Eppure c’è sempre un solo modo giusto di fare le cose e mille modi sbagliati. Est modus in rebus, dicevano i latini. C’è sempre un modo giusto di fare le cose. La citazione è come il sedile di una Panda, completamente ribaltabile, e si presta ad essere letta in molti modi diversi, uno più interessante dell’altro. Proviamo. Rebus est in modus. Il problema è nel trovare il modo. Una volta trovato il modo, tutto diventa fluido, tutto diventa facile. Modus est in rebus. Non occorre cercare lontano perché il modo giusto di fare le cose è sempre insito nelle cose stesse, basta osservarle più profondamente o da una angolazione diversa, usando lenti di altro colore o cambiando osservatore. Ecco perché spesso un consulente riesce laddove lo studio si blocca.
Anche una volta identificato lo stato desiderato, il microprocesso è difficilissimo da cambiare perché è il luogo dove più di ogni altro si sedimenta l’abitudine. Come in una dieta dimagrante o nella rinuncia al fumo, la consapevolezza di dover cambiare non basta. Si dice che l’80 per cento delle cose che facciamo sono automatiche, perché il cervello umano è pigro e cerca sempre di risparmiare energie. Le abitudini, come dice Charles Duhigg, instaurano su di noi una vera e propria dittatura, dalla quale non riusciamo spesso a liberarci nemmeno profondendo tutta la nostra volontà. Figuriamoci quale grado di attecchimento potrebbero avere su di noi i nuovi metodi di lavoro se invece credessimo fermamente che andranno a beneficio esclusivo di quel marpione del nostro capo.
Eppure lo spreco è lì, nell’inizio di lavoro non coordinato, nelle eterne accensioni dei sistemi informatici, nelle troppo frequenti interruzioni per le telefonate, nella eccessiva loquacità con i clienti, nelle sconfinate e scoordinate pause caffè, nelle mille pratiche in attesa per l’assenza del professionista, nei clienti reticenti e in quelli che usano lo studio come fosse il loro armadio.
Anche quando è personalmente intervistato, il personale dello studio non si sbottona rispetto ai microprocessi. Li salta, li dà per scontati. Non sono nemmeno rilevati nelle procedure scritte di cui sempre più studi si stanno dotando, perché quei documenti si fermano ad un livello di dettaglio inferiore. Altrimenti dovremmo scrivere anche come si tiene la penna in mano. Eppure è diventato importante non passare decine di secondi a cercarla sulla scrivania per poi accorgerci che non scrive perché il refill si è esaurito. E allora telefoni alla collega per sapere se c’è un ricambio e per far prima lo si cerca in due. Spesso l’unico modo di carpire i microprocessi è quello di appollaiarsi come degli avvoltoi dietro la scrivania del malcapitato e trascorrere con lui o con lei un paio di giornate di lavoro, da mattina a sera in assoluto silenzio e rilevando su un quaderno le operazioni ripetitive o scoordinate, la carenza di risorse, la non corretta dislocazione del posto di lavoro, la incapacità di gestire le priorità, ecc… Si consiglia, per mettere a suo perfetto agio l’operatore, di acquistare un notes di colore nero.
È chiaro però che la presenza stessa dell’osservatore, interno o esterno allo studio, in qualche modo falsa la rilevazione perché spinge comunque il lavoratore o la lavoratrice a darsi un tono. Inoltre, vi posso assicurare che ci sono molti sport più divertenti che fare il corvo della Settimana Enigmistica della situazione.
Poi le risultanze andranno discusse con il lavoratore interessato, che andrà accompagnato per un periodo con adeguata formazione e soprattutto costante affiancamento e supervisione a gestire meglio il proprio tempo.
Il lavoro di analisi dei microprocessi richiede tempo ed energie e può generare momentaneamente qualche muso lungo, ma alla fine i risultati non solo economici sono straordinari. Lavorare bene fa bene alla autostima del lavoratore e gli consente di vivere molta più parte della giornata lavorativa in una situazione di flusso e non di stress.