Tassazione del capital gain delle quote detenute in comunione legale
di Sandro Cerato - Direttore Scientifico del Centro Studi TributariDal 1° luglio 2014 è entrata in vigore la nuova tassazione sulle rendite finanziarie (D. L. n. 66/2014), che ha determinato il passaggio dell’aliquota sui redditi di natura finanziaria dal 20% al 26%.
Sono toccati dall’aumento dell’aliquota al 26% tutti i redditi di capitale di cui all’art. 44 Tuir e le plusvalenze di cui all’art. 67 Tuir, con l’esclusione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni qualificate, di cui all’art. 67, lettera c). Le plusvalenze da cessione di partecipazioni qualificate, infatti, non sono soggette ad imposta sostitutiva, ma concorrono a formare la base imponibile IRPEF nella misura del 49,72%.
Pertanto, il possesso di una partecipazione “qualificata” o “non qualificata” determina un differente regime di tassazione della plusvalenza da cessione della stessa, sebbene in talune occasioni, come nel caso poco più sotto delineato, la “qualificazione” o meno della partecipazione non sia di agevole definizione.
L’art. 4, lett. a), del Tuir prevede che i redditi dei beni che formano oggetto di comunione legale sono imputati a ciascuno dei coniugi, nelle seguenti misure: in parti uguali, in assenza di convenzione che disciplini diversamente la ripartizione dei redditi, ovvero in proporzione alle diverse quote, in presenza di convenzione matrimoniale ai sensi dell’art. 210 Cod. Civ.
L’Agenzia delle entrate, nella Risoluzione n. 131/E/2002, si sofferma sul regime fiscale derivante dal realizzo di plusvalenze da cessioni di partecipazioni acquistate dai coniugi che, in data anteriore all’acquisto, hanno stabilito con scrittura privata autenticata che le quote avrebbero costituito oggetto di comunione in parti uguali.
Ciò determina, come si vedrà nel seguito, interessanti conseguenze per la determinazione della plusvalenza derivante dalla vendita delle quote. Si ricorda che ai sensi dell’art. 177 Cod. Civ., oggetto della comunione sono, tra gli altri, gli acquisti compiuti dai due coniugi, insieme o separatamente, in costanza di matrimonio, ad esclusione dei beni personali (art. 179 Cod. Civ.). E’ quindi agevole intuire che nel regime di comunione, pur non essendoci una cointestazione formale dei beni, esiste una situazione sostanziale per effetto della quale entrambi i coniugi possono rivendicare un diritto di proprietà nei confronti dei beni oggetto della comunione. Al contrario, se i coniugi non intendono far accadere ciò e vogliono mantenere entrambi un diritto “pieno” sui beni acquisiti da ciascuno dopo il matrimonio, devono manifestare la propria volontà optando per il regime di separazione dei beni. In altre parole, è possibile individuare nell’art. 177 Cod. Civ. una sorta di presunzione, per effetto della quale tutti i beni oggetto d’acquisto in costanza di matrimonio, ancorché effettuato da uno solo dei coniugi, rientrano di “diritto” nella comunione legale, a meno che non si realizzi una fattispecie esclusiva di cui all’art. 179 Cod. Civ.. D’altro canto, sull’ipotesi specifica che in questa sede s’intende analizzare, ovverosia le azioni e quote di partecipazione in società di capitali, si è pronunciata anche la Suprema Corte (sentenza n. 9355/1997), la quale ha espresso un importante principio: le partecipazioni in società di capitali rilevano nel loro aspetto patrimoniale, il quale è prevalente rispetto alla posizione personale del socio, e quindi tali beni non possono essere considerati dei beni personali di cui all’art. 179 Cod. Civ. e, come tali, esclusi dalla comunione legale. La fattispecie, oggetto di analisi da parte dell’Agenzia delle Entrate nella citata Risoluzione n. 131/E/2002, a seguito di specifica istanza di interpello, non riguarda propriamente coniugi in regime di comunione legale, bensì sembrerebbe riferirsi a coniugi in regime di separazione legale ai sensi dell’art. 215 Cod. Civ. che, prima di acquistare delle quote di partecipazione in società, hanno stabilito, con scrittura privata autenticata, che tali quote avrebbero costituito oggetto di comunione in parti uguali. Si avrebbe, in altre parole, una comunione “ordinaria”, cioè un rapporto di comproprietà tra coniugi instaurato con apposito atto, i cui effetti fiscali, secondo l’Agenzia delle Entrate, sono i medesimi della comunione legale ex art. 177 Cod. Civ..
Ciò posto, si è chiesto all’Agenzia delle Entrate di chiarire il regime fiscale della plusvalenza realizzata dalla vendita di tale partecipazione, ossia se detta plusvalenza possa essere assoggettata all’imposta (ora del 26%) prevista per le cessioni non qualificate, trattandosi di partecipazione azionaria che, per effetto dell’accordo intervenuto tra i coniugi, non supera la soglia di qualificazione prevista dall’art. 67, lett. c), del Tuir. La risposta del Ministero, favorevole al contribuente, si basa sulla considerazione che, in presenza di una convenzione tra i coniugi, in virtù della quale si pattuisce l’attribuzione al 50% della partecipazione a ciascuno dei coniugi, gli effetti si producono necessariamente anche ai fini fiscali. Tale conclusione, prosegue il Ministero, si realizza nonostante l’intestazione della partecipazione sia attribuita, ovviamente, al solo coniuge che ha eseguito l’acquisto, il quale è il solo soggetto legittimato ad esercitare i diritti di partecipazione e di voto nell’assemblea della società. Ciò nonostante, afferma l’Agenzia, con scrittura privata si può definire la suddivisione in parti uguali dei diritti “economici” derivanti dalla proprietà della partecipazione, ossia la prevalenza dell’aspetto patrimoniale rispetto ai diritti ed obblighi connessi con lo status di socio incorporato nelle azioni. In altre parole, è sempre necessario distinguere tra proprietà della partecipazione e legittimazione all’esercizio dei diritti insiti nel titolo. D’altro canto, è opportuno ricordare che la stessa Corte di Cassazione (sentenza citate), ha affermato che le azioni di società costituiscono incrementi patrimoniali rientranti tra gli acquisti oggetto di comunione legale ai sensi dell’art. 177, lett. a) e c), Cod. Civ., in quanto, non essendo le azioni semplici titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale è assolutamente prevalente rispetto ai diritti ed obblighi relativi alla qualifica di socio. A conferma delle proprie conclusioni, infine, l’Agenzia delle Entrate richiama l’art. 4 del Tuir, secondo cui i beni che formano oggetto della comunione legale sono imputati per metà del loro ammontare a ciascuno dei coniugi, o per le diverse quote stabilite con successive modifiche ai sensi dell’art. 210 Cod. Civ.. Il citato art. 4 del D.P.R. 917/86, infatti, comporta che ogni reddito derivante dai beni oggetto di comunione deve essere suddiviso in parti uguali tra i coniugi, qualunque sia la natura del reddito, potendovi rientrare, nel caso specifico, anche i dividendi distribuiti dalla società a favore dei soci. Per effetto dunque di tale “attrazione” alla comunione legale, voluta dal legislatore del Testo Unico, anche la tassazione del reddito diverso di cui all’art. 67, lett. c) e c-bis), nonché l’aliquota applicabile, deve tener conto della suddivisione a metà tra i due coniugi. Nella fattispecie concreta, pertanto, l’imputazione a ciascuno dei coniugi della metà della partecipazione ceduta, comporta l’applicazione dell’aliquota del 26% prevista per le partecipazioni non qualificate ai sensi dell’art. 67, lett. c-bis) del TUIR.