Il Transfer price non si applica ai fini Iva
di Marco BargagliIl nostro ordinamento giuridico, in linea con le raccomandazioni Ocse, contiene specifiche disposizioni finalizzate ad arginare fenomeni di pianificazione fiscale infragruppo attuati mediante la manipolazione dei prezzi di trasferimento intercompany.
La normativa antielusiva in rassegna è contenuta nell’articolo 110, comma 7, Tuir e, in ambito internazionale, nelle linee guida dell’Ocse sui prezzi di trasferimento per le imprese multinazionali e le amministrazioni fiscali, nella versione approvata nel mese di luglio 2017.
Il principio di libera concorrenza (c.d. arm’s length principle) è universalmente riconosciuto come il principale punto di riferimento utilizzato a fini fiscali per la determinazione dei prezzi di trasferimento.
Tale principio è enunciato nell’articolo 9 del Modello di Convenzione fiscale dell’Ocse, il quale prevede che: “nel caso in cui le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, siano vincolate da condizioni, convenute o imposte, diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che, in mancanza di tali condizioni, sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che, a causa di dette condizioni, non sono stati realizzati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza”.
Anche la prassi domestica si occupa di dare una definizione al fenomeno in rassegna, identificando il transfer pricing come la pratica adottata all’interno di un gruppo di imprese, attraverso la quale si realizza un trasferimento di quote di reddito tra consociate mediante l’effettuazione di cessioni di beni o prestazioni di servizi ad un valore diverso da quello che sarebbe stato pattuito tra entità indipendenti.
In altre circostanze, il transfer pricing può essere utilizzato per sviluppare politiche di gruppo con finalità commerciali, effettuando il trasferimento di beni e servizi a valori più bassi rispetto a quelli normalmente applicati, con il solo scopo di consentire al cessionario/consociato di conquistare fette di mercato, attraverso la successiva vendita di prodotti a prezzi altamente competitivi (cfr. Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza – volume III – parte V – capitolo 11 “il contrasto all’evasione e alle frodi fiscali di rilievo internazionale”, pag. 367 e ss.).
L’argomento in esame riveste profili di estrema complessità e delicatezza in quanto non è sempre agevole determinare, con precisione, la congruità dei prezzi di trasferimento praticati nelle transazioni infragruppo.
Di conseguenza, tra il Fisco ed il contribuente si sono instaurate numerose controversie a seguito dell’effettuazione di mirate verifiche fiscali, nel corso delle quali viene proposto il recupero a tassazione di rilevanti importi sottratti a tassazione, nell’ambito di politiche di “travaso di utili” all’estero ed erosione del reddito nazionale.
In merito, si ritiene che la maggiore base imponibile constatata nel corso di un controllo tributario abbia esclusiva rilevanza ai fini Ires ed Irap, con impossibilità di estendere i rilievi anche ai fini dell’Iva.
In tal senso, si è recentemente espressa la suprema Corte di cassazione, sezione civile, con la sentenza n. 2240/2018 pubblicata in data 30 gennaio 2018.
Il contribuente ha proposto ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 60/44/10, depositata in data 8 giugno 2010, con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva accolto l’appello dell’Ufficio ritenendo legittimo l’avviso di irrogazione delle sanzioni operato ai fini Iva, derivanti dall’omessa fatturazione e registrazione delle operazioni attive già oggetto di rettifica in applicazione della normativa prevista in tema di prezzi di trasferimento infragruppo.
Gli ermellini, in via preliminare, hanno sancito che:
- il “transfer pricing” risponde ad esigenze di equa suddivisione dei profitti nei vari Stati in cui operano i gruppi multinazionali;
- per l’Iva, sulla base dei principi di derivazione comunitaria (ex articolo 73 Direttiva 112/2006/CEE), il corrispettivo effettivamente ricevuto è un elemento cardine del meccanismo di applicazione dell’imposta fondato sul principio di neutralità, che sarebbe violato qualora la base imponibile fosse calcolata come un importo superiore al corrispettivo ricevuto.
In merito, l’articolo 17 della Sesta Direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977, riconduce il diritto alla detrazione all’esigibilità ed inerenza dell’acquisto del bene o servizio, senza contemplare alcun riferimento, e comunque non in modo diretto, al valore del bene o servizio.
Inoltre, anche sulla base dell’orientamento espresso dai giudici unionali:
- la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato deve ritenersi irrilevante (cfr. Corte di giustizia europea sentenza 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gasabach, 22);
- non c’è elusione o evasione fiscale se i beni o i servizi sono forniti a prezzi artificialmente bassi o elevati fra le parti che godano entrambe del diritto a detrazione Iva, essendo solo a livello del consumatore finale che può verificarsi una perdita di gettito fiscale (cfr. Corte di giustizia europea, sentenza 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan, p. 47).
In conclusione, i supremi giudici di legittimità hanno confermato l’irrilevanza ai fini Iva delle rettifiche derivanti dall’applicazione della normativa sul transfer price.
Infatti, come rilevato nella sentenza, il calcolo dell’Iva sul corrispettivo può essere disatteso solo quando l’Amministrazione finanziaria dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione, tale da assumere rilievo indiziario di non verità della fattura e, dunque, di non verità dell’operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad Iva.