Trasferimento di azienda ed operazioni abusive: la fusione
di Paolo Meneghetti - Comitato Scientifico Master Breve 365Nell’ambito del tema dell’abuso del diritto in relazione ad operazione di trasferimento di azienda, la scelta di operare una fusione ha sempre destato minori timori di contestazioni da parte della Agenzia delle entrate, rispetto alle operazioni che con la fusione condividono la neutralità fiscale, ossia il conferimento di azienda e, soprattutto, la scissione.
La natura stessa della fusione (cioè operazione di concentrazione di più società) tende a ridurre fortemente il dubbio dell’obiettivo elusivo, posto che risulta difficile pensare che, riunendo più contesti societari e restando nel perimetro del reddito d’impresa, si possa ottenere qualche vantaggio fiscale indebito. Ciò non significa che la fusione societaria sia operazione del tutto immune dal rischio di contestazione per abuso del diritto (come del resto si vedrà in seguito), ma certamente si può affermare che tale rischio è ridotto e, molto difficilmente, è collegato con un trasferimento di azienda.
Forse l’unica operazione di fusione con trasferimento di azienda – che nel passato poteva destare il timore dell’abuso del diritto – era la cosiddetta “fusione liquidatoria”, con la quale veniva sì trasferito un ramo di azienda, laddove, tuttavia, l’intento principale era rappresentato dalla necessità di cessare una certa realtà aziendale, senza far emergere plusvalenze.
Pensiamo allo schema classico della società A che controlla al 100% la società operativa B, il cui ramo di azienda va cessato, presentando forti plusvalenze latenti.
L’ipotesi ordinaria, cioè liquidazione della società B avrebbe dato luogo all’assegnazione al socio A dell’azienda al valore normale, a norma dell’articolo 9, Tuir; criterio con il quale vengono trattate le plusvalenze da assegnazione di cui all’articolo 86, comma 3, Tuir. Quindi, il trasferimento dell’azienda, in sede di chiusura della liquidazione, avrebbe generato sia plusvalenza da assegnazione, sia distribuzione di riserve, che, benché tassate in capo alla società controllante al 5% di imponibile, avrebbero, comunque, generato un reddito tassabile.
A fronte di questa opzione liquidatoria con effetti realizzativi, la società A avrebbe potuto incorporare la società B, ottenendo di fatto lo stesso obiettivo, ovvero cessare l’attività di B facendola confluire nella società A. Il trasferimento dell’azienda detenuta da B in A con la fusione avviene senza far emergere alcuna plusvalenza, attesa la neutralità della fusione, mentre per quanto riguarda le riserve di utili contenute in A occorre notare che:
- se dalla operazione emerge un disavanzo (valore della partecipazione in B più elevato del patrimonio netto contabile della stessa B) non vi sarà alcuna modifica al patrimonio netto di A (quindi non si assumono per distribuite le riserve di utile presenti nella incorporata)
- se dalla fusione emerge un avanzo (valore della partecipazione in B minore rispetto al patrimonio netto contabile della stessa B), allora le riserve di utile verranno trasferite in A, ma resteranno nel patrimonio netto di quest’ultima e, quindi, saranno tassabili solo in caso di effettiva distribuzione.
Le conseguenze fiscali delle due scelte sopra descritte sono molto diverse, e poteva porsi il tema dell’abuso del diritto optando per la scelta “fusione” certamente più conveniente; ebbene, questa scelta rientra perfettamente tra quelle legittimamente assunte, ai sensi dell’articolo 10 bis, comma 4, L. 212/2000, che recita: “Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.”
Peraltro, una specifica affermazione di “salvataggio” della fusione liquidatoria dal novero delle operazioni abusive è contenuta proprio nella Relazione Governativa al D.Lgs. 128/2015 (che ha introdotto l’attuale testo dell’articolo 10 bis, L. 212/2000) che recita: “Non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dare luogo alla estinzione di una società, di procedere ad una fusione anziché ad una liquidazione”.
Sgombrato il campo da tale sospetto, che resta da dire sul pericolo di incappare nell’abuso del diritto in una operazione di fusione?
Certamente, corre il pericolo di contestazione la fusione cosiddetta circolare, ma va segnalato che, nell’ambito della nostra indagine, che muove dal trasferimento di azienda, nel caso che ora descriviamo si parla più che altro di trasferimento di partecipazioni societarie.
Il caso tipico è rappresentato dalla società A che detiene nel patrimonio netto significative riserve di utili che, laddove distribuite, comporterebbe l’applicazione della ritenuta d’imposta del 26% in capo ai soci persone fisiche (ipotizziamo Neri e Bianchi soci al 50%). Ebbene, i soci Neri e Bianchi rivalutano le partecipazioni pagando imposta sostitutiva del 16% (scadenza del versamento al 30.11.2024 grazie alla proroga contenuta nel D.L. 113/2024), poi costituiscono una new co, a cui vendono le partecipazioni rivalutate. Successivamente, la New.co incorpora A, e con la liquidità generata dalle riserve di utili, paga ai soci persone fisiche il debito per la cessione della partecipazione. In tal modo, pagando il 16% (10 punti percentuale in meno rispetto al 26%) i soci incassano sostanzialmente le riserve di utili di A. Ma questa operazione non regge al vaglio dell’abuso del diritto, poiché caratterizzata dalla circolarità, in quanto i soci cedono in sostanza a sé stessi le partecipazioni rivalutate, ottenendo un vantaggio fiscale da considerarsi indebito.
Questa operazione è stata inquadrata tra le fusioni abusive, già dal principio di diritto n. 20/2019, oltre che dalla risposta ad interpello n. 341/2019. Sul punto, da ultimo, va osservato che elemento dirimente è l’identità dei soci coinvolti nella operazione di fusione (cioè gli stessi soci nella società target e nella New Co). Ove, invece, le compagini societarie siano diverse cade il teorema della assenza di valida ragione economica, anche se questo ultimo aspetto non sempre è tenuto presente nei controlli della Agenzia delle entrate, ed anche nella prassi sopra citata, in realtà, non si aveva perfetta identità tra le compagni societarie, ma ciò non è stato sufficiente per superare il sospetto di abuso del diritto.