I tre pilastri della Previdenza
di Marco DegiorgisÈ necessario capire come funzionano alcuni meccanismi previdenziali, per evitare di trovare brutte sorprese, realizzare un’analisi attenta e dettagliata e valutare le diverse alternative.
Abbiamo fondamentalmente tre possibili fonti di reddito pensionistico: da parte del sistema pubblico obbligatorio (c.d.: primo pilastro), da parte dei fondi pensione collettivi (secondo pilastro) e dalla previdenza integrativa individuale volontaria (terzo pilastro).
Per quanto riguarda il sistema pensionistico pubblico, gestito dall’INPS, si sta passando da un sistema retributivo (fino al 1995 era solo retributivo), in cui non vi è stretta correlazione tra contributi versati e prestazione percepita, ad un sistema contributivo (riforma Dini), in cui invece si percepirà una pensione derivante dai versamenti effettuati negli anni. Il motivo per ridurre le pensioni erogate è semplice; ci sono meno lavoratori attivi e aumentano i pensionati. Inoltre è previsto un aumento dell’età media, quindi le pensioni dovranno essere pagate per più anni.
Quali soluzioni sono state adottate dai governi? Ridotte le pensioni (non tutte, lo sappiamo, ci sono ancora persone che godono di anacronistici privilegi e ricevono migliaia di euro ogni mese), aumentati i contributi da versare, aumentata l’età minima per accedere alla pensione. E nei prossimi anni non potranno che inasprire queste misure.
Nel passaggio da sistema retributivo a sistema contributivo, ci saranno molte persone che si troveranno a cavallo dei due, rientrando quindi in un sistema “misto”. Pochi potranno usufruire ancora pienamente del sistema retributivo: devono avere più di 18 anni di attività prima del 1996. È importante analizzare bene la situazione e capire quali opportunità siano più convenienti. In linea di massima, il sistema contributivo è maggiormente penalizzante, riducendo di fatto il reddito da pensione e quindi potrebbe non risultare conveniente il cosiddetto “ricalcolo contributivo”, ma non è detto. Ci sono casi in cui aderendo al misto si va in pensione più tardi, cosa di solito non gradita! Ci sono inoltre diverse possibilità per riscattare posizioni non lavorative (es. laurea, maternità, assistenza, servizio militare) che possono tornare utili ai fini del calcolo pensionistico, alcune sono gratuite, altre a pagamento, quindi è necessario calcolare il rapporto costi/benefici.
L’ente pubblico erogatore per eccellenza è INPS, in cui è confluita anche l’INPDAP (relativa ai dipendenti della pubblica amministrazione) ma esistono anche le casse previdenziali dei liberi professionisti, ognuna con regole diverse.
Altra cosa da sapere è a quale macro gestione INPS si appartiene; gestione fondo pensione per lavoratori dipendenti, gestioni speciali per artigiani, commercianti, coltivatori diretti, gestione separata per amministratori di società, lavoratori a progetto eccetera.
Queste tre gestioni hanno livelli di contribuzione diverse e spesso ci sono persone che, durante la loro vita lavorativa, sono state in più di una gestione. Bisogna quindi capire quale attività è stata prevalente e se conviene l’accorpamento delle posizioni.
Dal lato del secondo pilastro, cioè i fondi pensione, regolamentati nel 1993 sebbene fosse possibile aderirvi già prima (c.d. fondi preesistenti), non sono stati molto utilizzati fino alla riforma del 2005, attuata nel 2007, che dava la possibilità, ai dipendenti, di conferire anche il TFR in un fondo pensione, anziché lasciarlo in azienda. La riforma era sibillina, poiché il lavoratore silente si trovava a versare il proprio TFR quasi senza saperlo! Doveva, e deve tutt’oggi, dare comunicazione esplicita di voler mantenere il proprio trattamento di fine rapporto presso l’azienda.
È conveniente per un dipendente versare il TFR nei fondi pensione? Dipende da alcuni fattori, innanzitutto dalla capacità dei gestori del fondo di ottenere rendimenti. Non brillano in generale né per trasparenza sulle scelte di gestione (poco si sa di come venga investito, in quali strumenti, con quale movimentazione) né per capacità di adattamento a mercati finanziari sempre più ostici. Se l’adesione al fondo è fatta attraverso accordi collettivi, certamente si può beneficiare di condizioni più vantaggiose rispetto a quanto si otterrebbe aderendo singolarmente. Altra componente positiva è il contributo obbligatorio del datore di lavoro, che in alcuni casi può essere interessante. Però è obbligato a versare, per lo stesso importo, anche il lavoratore. E qui bisognerebbe fare calcoli di convenienza economica.
È evidente che per le piccole e medie aziende, il conferimento del TFR nei fondi è un problema, poiché spesso (sbagliando) la somma destinata a pagare il TFR dei dipendenti, viene usata per far fronte ad esigenze di liquidità e finanziamento dell’impresa.
È denaro destinato ad uscire dall’azienda, senza grande prevedibilità dei tempi. Spesso si tratta di cifre complessive importanti, che l’azienda farebbe bene a tenere disponibili. Già, ma così facendo si priva di finanziamenti! In realtà c’è una possibile via di uscita, basterebbe vincolare le somme destinate al TFR aziendale e chiedere un prestito su queste. Di solito le banche non propongono questo tipo di soluzione, purtroppo per conflitti di interesse.
Per le aziende con oltre 50 dipendenti, il maturato da TFR non può essere più mantenuto in azienda ma confluisce nel fondo di Tesoreria dell’INPS.
Le buone notizie sul TFR sono che sono state equiparate le forme pensionistiche e la portabilità del medesimo; queste due prerogative consentono di trasferire le somme accumulate non solo tra fondi pensione ma anche verso altre forme complementari, come le Forme Individuali di Previdenza (FIP) e i Piani Individuali Previdenziali (PIP), che fanno parte del terzo pilastro.
Nel prossimo contributo, entrerò nel dettaglio degli aspetti fiscali e dei benefici per le imprese.
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