28 Gennaio 2019

Treaty shopping: la Cassazione impone nuovi oneri probatori

di Marco Bargagli
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Il “treaty shopping” può essere definito come un fenomeno di elusione fiscale internazionale attuato mediante l’interposizione di una o più società (c.d. conduit company) nelle transazioni economiche intercorse, in realtà, tra altri soggetti.

L’obiettivo finale è quello di sfruttare le migliori condizioni previste dagli accordi internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi e, simmetricamente, ottenere una minore tassazione all’atto dell’erogazione di particolari flussi reddituali (dividendi, interessi o royalties).

Per contrastare tali manovre di pianificazione fiscale, gli accordi internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi e talune direttive comunitarie prevedono una specifica clausola antiabuso, denominata “beneficiario effettivo” o “beneficial owner”, espressamente contenuta negli articoli 10, 11 e 12 del modello di convenzione internazionale.

Sulla base delle raccomandazioni OCSE (in particolare nel Commentario al modello di convenzione), è considerato beneficiario effettivo il percettore dei redditi che gode del semplice diritto di utilizzo dei flussi reddituali (right to use and enjoy) e non sia, conseguentemente, obbligato a retrocedere gli stessi ad altro soggetto, sulla base di obbligazioni contrattuali o legali, desumibili anche in via di fatto (“unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person”).

Quindi, sotto il profilo sostanziale, il soggetto che percepisce i redditi deve essere il titolare giuridico dei medesimi flussi, disponendone pienamente, senza avere alcun obbligo di retrocessione degli stessi nei confronti di altri soggetti economici.

Tale principio, che sembra dare prevalenza alla sostanza rispetto alla forma, si contrappone nettamente ad un importante filone giurisprudenziale espresso negli ultimi tempi, che ha attribuito particolare valenza probatoria alla certificazione fiscale rilasciata da parte del soggetto estero che percepisce il reddito (cfr., a titolo esemplificativo, CTR Piemonte, sentenza n. 28 del 04.05.2012;  CTR Milano, sezione distaccata di Brescia, sentenza n. 2897 del 29.06.2015;  CTP Milano, sentenza n. 9819/1/2015).

Sulla base di tale approccio, per provare la qualifica di beneficiario effettivo sarebbe sufficiente esibire la certificazione di residenza nello Stato estero, tenuto conto che eventuali oneri aggiuntivi richiesti al contribuente ispezionato non possono essere ritenuti obbligatori, in quanto aggraverebbero gli oneri documentali posti a carico del sostituto d’imposta italiano che eroga i dividendi, gli interessi o le royalties nei confronti di soggetti economici non residenti in Italia.

Corre l’obbligo di ricordare le argomentazioni espresse con la richiamata sentenza CTR Piemonte, n. 28 del 04.05.2012, ove è stato chiarito che: “il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni commerciali per beneficiare di regimi fiscali di favore”.

Nel caso in esame il contribuente aveva esibito le certificazioni fiscali delle autorità tedesche, le quali assumevano “indubbia valenza probatoria” ai fini della individuazione del beneficiario effettivo.

Tuttavia, la tesi prospettata da parte del giudice del gravame Piemontese, basata come detto sul concetto di “sufficienza probatoria del certificato fiscale”, non è stata confermata da parte della suprema Corte di cassazione, Sezione V civile, come rilevabile nelle più recenti ordinanze n. 32840, 32841, 32842 del 19.12.2018.

Gli ermellini, nel caso di specie, hanno interpretato la clausola antiabuso del beneficiario effettivo come strumento per prevenire manovre di pianificazione fiscale internazionale, imponendo anche la verifica di eventuali retrocessioni dei flussi reddituali, da parte di una società qualificabile come mera “conduit company”, nei confronti delle top holding che figurano come i reali percettori dei redditi.

Dai documenti acquisti agli atti dell’articolato controllo emergeva che una società residente in Italia, appartenente ad un Gruppo multinazionale americano, aveva corrisposto royalties nei confronti di un soggetto di diritto tedesco.

Nello specifico, come si legge in sentenza, da un documento rilasciato da una primaria società di revisione internazionale, emergeva che il soggetto estero aveva la tipica natura di una holding, i cui componenti positivi di reddito consistevano in proventi finanziari (canoni o royalties).

Il core business della legal entity tedesca era rappresentato dalla concessione, alle consorelle europee, di licenze per lo sfruttamento di diritti immateriali (privative industriali), di proprietà della casa madre americana.

In particolare, nel lasso temporale 2002-2006, la società di diritto estero aveva introitato dalle controllate europee euro 277,5 milioni di royalties, euro 228,3 milioni dei quali erano stati corrisposti ad una società americana, che agiva in qualità di licenziataria esclusiva dei diritti immateriali.

Ciò premesso, la suprema Corte illustra la natura della clausola antiabuso presente nei trattati internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi.

In merito, i supremi giudici sottolineano che:

  • la prassi internazionale tributaria ha elaborato il concetto di “beneficiario effettivo” al fine di contrastare quelle pratiche volte proprio a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale;
  • tale clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale, come affermato dai supremi giudici, “é volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping con lo scopo di riconoscere la protezione convenzionale a contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subìto un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole”;
  • in virtù della clausola del “beneficiario effettivo” può fruire dei vantaggi garantiti dai trattati solo il soggetto sottoposto alla giurisdizione dell’altro Stato contraente, che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali o addirittura un fenomeno di non imposizione.

Successivamente, delineato l’ambito giuridico di riferimento, i giudici di piazza Cavour osservano che la sentenza impugnata da parte dell’Agenzia delle entrate “ha laconicamente affermato che la contribuente aveva esibito: «le certificazioni fiscali delle autorità tedesche che hanno indubbia valenza probatoria»”

Tuttavia, il percorso logico-giuridico sotteso alla decisione della lite fiscale “è fragile e lacunoso” perché è stata trascurata l’attenta e scrupolosa disamina della tesi erariale, secondo cui l’attestazione della società di revisione internazionale confermava, nitidamente, che la società tedesca non era il “beneficiario effettivo” delle royalties.

La società europea svolgeva infatti il più marginale ruolo di “conduit company”, mera intermediaria della casa madre statunitense alla quale, infatti, trasferiva gran parte delle royalties ricevute dalle controllate europee, in tal modo assoggettando a tassazione in Germania, come certificato dall’autorità fiscale tedesca, il reddito costituito da un’esigua quota (pari al 20% circa del percepito), che veniva trattenuto a titolo di provvigione per l’attività finanziaria svolta, consistente nella concessione di licenze all’intera platea delle società europee del gruppo internazionale.

In conclusione, a parere della Corte di cassazione, “è chiaro che tale aspetto fattuale, se apprezzato e non pretermesso dalla Commissione piemontese, ne avrebbe probabilmente orientato il processo decisionalerimasto oscuro e inespresso – lungo altre direttrici”.

La fiscalità internazionale nella dichiarazione dei redditi