3 Maggio 2018

Treaty shopping: la giurisprudenza in tema di beneficiario effettivo

di Marco Bargagli
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L’abuso di trattati internazionali, conosciuto tra gli addetti ai lavori come “treaty shopping”, può essere definito come un fenomeno di elusione fiscale internazionale attuato mediante l’interposizione di società veicolo (c.d. conduit company), appositamente costituite, che non svolgono alcuna reale attività.

In alcuni casi, l’obiettivo perseguito dal Gruppo multinazionale, in un’ottica di pianificazione fiscale aggressiva, è quello di erogare i flussi reddituali (tipicamente dividendi, interessi o royalties) azzerando o riducendo il prelievo fiscale nel Paese della fonte sfruttando, indebitamente, le regole impositive previste dagli accordi internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi.

Per contrastare tale fenomeno la comunità internazionale ha introdotto, negli accordi bilaterali sottoscritti tra i vari Paesi, una specifica clausola antiabuso (denominata “beneficiario effettivo” o beneficial owner), la cui definizione è rinvenibile nel Commentario agli articoli 10, 11 e 12 del modello Ocse di Convenzione internazionale.

Il predetto modello convenzionale e relativo commentario attualmente prevedono che è considerato beneficiario effettivo il percettore dei redditi che gode semplicemente del diritto di utilizzo dei flussi reddituali (“right to use and enjoy the interest”) e non sia, conseguentemente, obbligato a retrocedere gli stessi ad un altro soggetto sulla base di obbligazioni contrattuali o legali desumibili anche in via di fatto (“unconstrained by a contractual or legal obligation to pass on the payment received to another person”).

In buona sostanza, i benefici previsti dalle fonti internazionali (es. direttive comunitarie o Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi) sono accordati solo nei confronti dell’effettivo beneficiario del reddito, mentre le agevolazioni fiscali previste dalla normativa interna del singolo Stato della fonte non possono essere sfruttate dal soggetto che agisce solo in qualità di mero fiduciario, agente, intermediario (rectius soggetto interposto).

Come appare evidente, la materia in rassegna presenta particolari profili di complessità nella sua concreta applicazione, imponendo un’approfondita riflessione in relazione all’onere della prova posto a carico del contribuente residente in Italia che agisce in qualità di sostituto d’imposta in sede di verifica fiscale.

Anzitutto, prima di effettuare il pagamento dei flussi reddituali nei confronti del soggetto non residente, l’impresa italiana deve acquisire la pertinente documentazione, rilasciata dal percettore estero, che consente la diretta applicazione del regime tributario previsto dagli accordi internazionali.

Sullo specifico punto si segnala che, sulla scorta di un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ormai assunto particolare rilievo la certificazione fiscale esibita da parte del soggetto che percepisce i flussi reddituali.

In merito, un primo chiarimento è intervenuto con la sentenza n. 28 del 04.05.2012 emessa dalla CTR Torino, ove è stato precisato che: “il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni commerciali per beneficiare di regimi fiscali di favore”.

Nella successiva sentenza n. 2897 del 29.06.2015 emessa dalla CTR Milano, sezione distaccata di Brescia, è stato affermato che per accertare lo status di beneficiario effettivo, occorre dimostrare che:

  • il reddito sia stato imputato al soggetto non residente secondo la legge fiscale dello Stato in cui esso risiede. Tale circostanza può facilmente essere accertata mediante la ricezione del certificato di residenza rilasciato dalle autorità fiscali dello Stato di residenza del beneficiario effettivo;
  • il soggetto cui il reddito è imputato non deve avere alcun obbligo, legale e contrattuale, di trasferire il reddito ad altro soggetto, sulla base di un’obbligazione originariamente collegata al reddito ricevuto.

La CTP Milano, con la sentenza n. 9819 del 02.12.2015 ha confermato che per provare la qualifica di beneficiario effettivo necessaria per l’esenzione da ritenuta sugli interessi ai sensi dell’articolo 26-quater D.P.R. 600/1973 e della direttiva 2003/49/CE è sufficiente esibire la certificazione di residenza nello Stato comunitario.

Tale approccio ermeneutico, basato essenzialmente sulla sufficienza probatoria del certificato fiscale è stato affermato, più di recente, dalla CTR Milano, sezione 21, con la sentenza n. 1068/2018 depositata in data 13 marzo 2018.

In tale ultima circostanza, il giudice tributario si è espresso in merito allo status di beneficiario effettivo nell’ambito di un’operazione di finanziamento concesso da parte di un’impresa residente in Ungheria, priva di stabile organizzazione in Italia, sul quale erano maturati i relativi interessi passivi.

Le riprese a tassazione erano state formulate nel corso di alcune verifiche fiscali eseguite presso le società italiane destinatarie dei finanziamenti ungheresi nel corso delle quali veniva constatata, a carico dei sostituti d’imposta, l’applicazione della ritenuta alla fonte all’atto del pagamento degli interessi nella misura del 27%, ai sensi dell’articolo 26, comma 5, D.P.R. 600/1973.

A parere dell’Amministrazione finanziaria, la società fiscalmente residente in Ungheria avrebbe svolto il “mero ruolo di beneficiario interposto (conduit company)” di un’altra società a sua volta controllata da una società residente nelle Bermuda, Paese a fiscalità privilegiata.

Di contro, la difesa del contribuente poneva in evidenza i seguenti elementi: il ruolo effettivo, commerciale e industriale svolto all’estero da parte della società ungherese, l’assunzione a suo rischio della politica di finanziamento delle consociate italiane, la sopportazione del rischio di cambio tra euro e fiorino ungherese, il parziale reimpiego degli utili derivanti dalla riscossione degli interessi attivi nelle attività industriali gestite dalla società. Elementi, questi, che emergevano, tra l’altro, dalle informazioni ufficiali provenienti dall’Amministrazione fiscale ungherese all’uopo interpellata.

Preso atto delle risultanze processuali il giudice tributario ha accolto la tesi prospettata dal contribuente, confermando la natura di beneficiario effettivo del soggetto ungherese.

In merito, il collegio ha ritenuto integrate le condizioni formali e sostanziali per accedere al regime fiscale derogatorio e, in particolare, alla società italiane che agivano in qualità di sostituto d’imposta non poteva essere richiesta l’ulteriore condotta tesa a verificare la veridicità della natura di beneficiario effettivo da parte della società percipiente i redditi.

Nello specifico, ha osservato il giudice del gravame, “la verifica circa l’effettività e la corrispondenza delle dichiarazioni rese da terze parti contraenti, non può essere esigibile nei confronti del sostituto d’imposta che abbia dimostrato di ottemperare agli obblighi imposti dalla legge usando l’ordinaria diligenza, a meno di non snaturarne il ruolo attribuito dalla legislazione fiscale”.

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