5 Luglio 2018

Il trust fra luoghi comuni e falsi miti – III° parte

di Sergio Pellegrino
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Proseguendo l’analisi delle possibili obiezioni sull’opportunità di istituire un trust, una questione sempre ricorrente è quella relativa al fatto che ci sono moltissime pronunce giurisprudenziali in materia e ciò dimostrerebbe come, facendo un trust, si rischi di finire nel “mirino” dell’Agenzia delle Entrate piuttosto che di qualche giudice.

Partiamo dal fatto incontrovertibile: è effettivamente vero che sono tantissime le sentenze che hanno ad oggetto trusts ed è altrettanto vero che la più parte di queste “smontino” i trusts che giudicano, con conseguenze nefaste per chi li ha istituiti, che possono toccare, a seconda dei casi, la sfera tributaria, civile e, in alcuni frangenti, quella penale.

Ma siamo sicuri che questo sia un fattore negativo?

Una vasta produzione giurisprudenziale dimostra, innanzitutto, che ci troviamo al cospetto di un istituto giuridico “vivo”, che viene utilizzato effettivamente e diffusamente da parte degli operatori.

Non altrettanto può dirsi, per fare soltanto un esempio, per gli atti di destinazione o per i patrimoni destinati ad uno specifico affare: le pronunce non ci sono (o sono comunque pochissime), e non perché questi siano strumenti giuridici che “funzionano” meglio, ma semplicemente perché sono scarsamente usati nella pratica.

Nel contempo, questa grande “attenzione” da parte dei giudici evidenzia come il sistema sia in grado di produrre quegli anticorpi necessari per contrastare un utilizzo distorto dell’istituto: questo aspetto rappresenta una garanzia per chi si comporta correttamente nell’istituire il proprio trust, così come per il terzo che si viene ad interfacciare con i trusts istituiti da altri.

È evidente infatti che, anche l’istituto giuridico più “nobile”, se asservito a finalità fraudolente, perde la propria meritevolezza e diventa strumento utilizzato non per affermare i propri diritti, ma per pregiudicare quelli altrui: in questi casi il sistema giudiziario deve intervenire per censurare questi comportamenti e, sanzionandoli, difende non solo l’interesse particolare e quello collettivo, ma anche lo stesso istituto giuridico dalle distorsioni che ne rischiano di minare la credibilità.

Va detto però che se ci si soffermasse sulla lettura delle sentenze, anziché limitarsi ai titoli degli articoli che magari le commentano e sintetizzano in modo (talora) impreciso, si appurerebbe facilmente come ad essere censurato da parte dei giudici non è, evidentemente, il ricorso al trust in sé, quanto il tentativo posto in essere di sottrarsi ad obbligazioni nei confronti dei creditori piuttosto che dell’erario o dei propri legittimari.

Non è dunque il trust il problema, ma l’illegittimo obiettivo che si è perseguito ricorrendo ad esso, tant’è che qualsiasi cosa si fosse fatta, e qualsiasi istituto si fosse utilizzato in alternativa, il giudizio finale non sarebbe evidentemente cambiato.

Se il cliente, dunque, giustamente si preoccupa di quale possa essere la percezione del “resto del mondo” (amministrazione finanziaria in primis) del trust che è intenzionato a istituire, gli va spiegato come questa sia strettamente dipendente dal modo in cui intende strutturare il trust e da quelle che sono le finalità che realmente persegue.

Il cliente deve comprendere la filosofia e le logiche dell’istituto e rispettarle: altrimenti, se così non è, meglio lasciar perdere e non fare nulla.

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