Trust liquidatorio e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte
di Luigi FerrajoliCon la sentenza n. 15449 depositata il 15 aprile 2015, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, ha rigettato il ricorso presentato da un imputato condannato in primo grado, con decisione confermata dalla Corte di Appello, relativamente ad una pronuncia di condanna in ordine al reato previsto e punito dall’art.11 del D.Lgs. n.74/2000.
In particolare, la condotta ascritta all’imputato era di avere costituito fraudolentemente, nella sua qualità di liquidatore di una società, un trust con lo scopo di rendere inefficace, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva, al fine di evadere le imposte dirette e sul valore aggiunto.
La Suprema Corte, nella propria motivazione, richiamando precedente giurisprudenza, ha innanzitutto chiarito che, ai fini della configurabilità del reato in esame, è sufficiente che “l’atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui beni siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del credito tributario, non essendo necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione in atto”.
Ciò comporta che, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, debba sussistere il dolo specifico, consistente nel fine di sottrarsi al pagamento del debito tributario; con riferimento all’elemento oggettivo, la condotta fraudolenta deve essere atta a vanificare l’esito dell’esecuzione tributaria coattiva, che peraltro non è un presupposto della condotta ma solo evenienza futura.
Premesso dunque che trattasi di reato di pericolo, essendo l’oggetto giuridico del reato la garanzia generica rappresentata dai beni dell’obbligato, la Cassazione ha evidenziato che “la condotta penalmente rilevante può essere costituita da qualsiasi atto o fatto fraudolento intenzionalmente volto a ridurre la capacità patrimoniale del contribuente stesso, riduzione da ritenersi, con un giudizio ex ante, idonea sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, a vanificare, in tutto od in parte, o comunque rendere più difficile, una eventuale procedura esecutiva”.
Su queste basi, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici di merito, con valutazione adeguata e corretta, non hanno posto in dubbio la legittimità della costituzione del trust, bensì ne hanno evidenziato lo scopo fraudolento, finalizzata a sottrarre il patrimonio del contribuente alla procedura coattiva.
Nel caso di specie, la società di cui l’imputato era accomandatario e liquidatore, aveva ricevuto la notifica di diverse cartelle esattoriali per debiti verso l’erario, con successiva iscrizione ipotecaria sugli unici immobili di proprietà della stessa, poi cancellata a seguito di ricorso tributario in cui il ricorrente aveva documentato l’alienazione degli immobili in data anteriore all’iscrizione ipotecaria.
L’imputato, quale liquidatore della società, aveva poi costituito un trust e trasferito a se stesso, quale trustee, l’intero patrimonio attivo e passivo della società. Disponente e trustee coincidevano dunque nella persona dell’imputato e la dichiarata finalità liquidatoria indicata nell’atto costitutivo del trust non era stata comunicata ai creditori sociali, derivandone la sostanziale inutilità della costituzione del trust per le finalità indicate.
In sostanza, il trust non sarebbe stato effettivamente e concretamente utilizzato per soddisfare i creditori della società e per versare all’erario, anche parzialmente, le somme dovute.
Sotto il profilo psicologico, come detto da individuarsi nel dolo specifico, la Suprema Corte ha sottolineato che “la sussistenza dell’elemento soggettivo, pertanto, ben può essere rinvenuta anche quando, come nel caso in esame, a fronte della piena conoscenza del debito tributario, il ricorso ad attività formalmente lecite abbia quale unica concreta conseguenza quella di impedire la riscossione fiscale, difettando ogni altro dato dimostrativo della effettiva volontà di perseguire le finalità proprie dello strumento giuridico cui si è fatto ricorso”.
La Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso proposto dall’imputato, pronunciandosi altresì, con riferimento al trattamento sanzionatorio, anche sulla richiesta di applicabilità, nella fattispecie in esame, della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis C.P.
La Corte, dopo avere valutato che i limiti di pena indicati nel richiamato art. 131 bis c.p. non sono stati superati nel caso di specie, ha evidenziato tuttavia che “nel provvedimento impugnato, emergono plurimi dati chiaramente indicativi di un apprezzamento sulla gravità dei fatti addebitati all’odierno ricorrente che consentono di ritenere non astrattamente configurabili i presupposti per la richiesta applicazione della norma invocata dall’imputato”.