20 Febbraio 2014

Una mina vagante per le aziende italiane: il rischio valutario rischia di bruciare oltre il 17% del fatturato

di Andrea Giovannetti
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Non sono certo mari tranquilli quelli dove oggi navigano le nostre aziende: tra riduzione dei fatturati e contrazione dei margini, ormai sopravvive solo chi riesce a vedere per tempo i pericoli (e le opportunità).

Tra i più subdoli e infidi, come uno scoglio aguzzo nascosto tra i flutti, c’è il rischio valutario.

Lo affronta, in modo consapevole o meno, ogni azienda che importi o esporti in valuta diversa dall’Euro e spesso viene sottovalutato.

Ciò avviene per molti motivi: fatalismo, errata percezione del rischio, misura non corretta dei propri parametri di rischio, etc.

Non è vero che “tutto ciò che sale prima o poi scende”, come qualche volta ci siamo sentiti dire, né che “non ci possiamo fare nulla”.

Soprattutto non è vero che il rischio è tutto sommato limitato perché la volatilità del dollaro, per esempio, è ben superiore a quello che comunemente si pensa.

L’azienda, in sede di budget o di fissazione dei listini, si tiene “larga” stimando un margine di sicurezza sul valore del dollaro per l’anno a venire di qualche punto percentuale. Ma un 4 – 5% non è sufficiente e quando ce ne accorgiamo, in corso d’anno, è ormai troppo tardi e tentiamo di mettere pezze di ogni tipo, che spesso peggiorano la situazione oppure stringiamo i denti e preghiamo.

Ma la volatilità delle valute non è un mostro che compare all’improvviso davanti alla prua della nostra nave, è un tema strutturale, misurabile ed affrontabile.

Le oscillazioni del dollaro, per tornare all’esempio, ma per altre valute il discorso è ancor più vero, sono ben più ampie del 5% che può costituire la nostra illusione di sicurezza. L’escursione media annua, tra massimo e minimo è pari a oltre il 17%!

Questo è il dato atteso, posso non saperlo, ma la sostanza non cambia.

La mia azienda vende negli Stati Uniti un oggetto a 100$, perché questo è il valore di listino calcolato sul costo, sulle politiche commerciali e sul cambio del momento che supponiamo essere 1,30. Il corrispondente prezzo in Euro è pari a 77. Ciò significa che in quell’anno, venderò dei pezzi a 77 Euro, ma altri pezzi a 68 oppure a 90, posso sostenere un’aleatorietà di questo tipo? Ho margini sufficienti per gestire questa volatilità “certa”? Da che livello di prezzo inizio a vendere in perdita?

Non posso sapere a priori se il cambio di inizio anno sarà vicino ai massimi o ai minimi o in una zona mediana e non so nemmeno la modalità con cui il dollaro si muoverà: potrebbe avere un movimento lineare e progressivo (difficile) oppure fatto di ampie valli e creste con una tendenza di base definita (più probabile), ma devo sapere che tutto ciò influenzerà pesantemente il mio conto economico.

Una cosa che posso (e devo) sapere, invece, è la distribuzione stimata dei miei incassi in dollari, la cui forma, unita alle dinamiche della valuta, porteranno alla misura economica dei rischi e alla determinazione delle soluzioni migliori.

Risulta evidente, infatti, che dei cicli stagionali spinti, aumentano, a parità di condizioni il rischio, in quanto questo si concentra sui picchi di vendita (o sui relativi picchi di incasso), mentre vendite equidistribuite durante tutto l’anno riportano il rischio sulle condizioni iniziali. E’ anche vero che questa distribuzione lineare degli incassi diventa, al contrario, più rischiosa in presenza di un dollaro in movimento lineare.

Insomma, come si può vedere il tema è tutt’altro che irrilevante in termini di impatto e necessita di attenzione e cura, né più né meno di altri aspetti aziendali.

Non è complesso, ma per affrontarlo correttamente è necessario modificare l’approccio: la pianificazione è un prerequisito, senza questa diventa difficile, se non impossibile procedere con i necessari passi di identificazione, misura e gestione del rischio stesso.

In ordine di importanza, infatti, il rischio maggiore dopo quello dell’inconsapevolezza è quello dell’illusione di copertura: pensavo di avere coperto il rischio e invece ho un danno.

Molte problematiche umane che ci troviamo ad affrontare si risolvono meglio se le spezziamo in sotto-problemi, invece nel caso del rischio valutario spesso il problema è inverso: penso di risolvere affrontando pezzo per pezzo, ma la somma non torna.

Un esempio tra i più frequenti è costituito dalla copertura “per commessa”.

L’azienda è consapevole del rischio, ma ritiene che questo nasca nel momento in cui viene confermato l’ordine da parte del Cliente.

Vendo il mio oggetto per 100$ a John Smith che lo riceverà tra un mese e mi pagherà tra due: oggi il dollaro vale 1,30, quindi ho chiuso un contratto teoricamente per 77 Euro, ma se il dollaro scende rischio di incassarne meno. La soluzione “toppa” è quella di vendere 100$ a termine, con scadenza 60 giorni da oggi: qualsiasi cosa accada i miei 100$ da qui all’incasso valgono 77 Euro, quindi ho preservato il mio margine e così farò per ogni commessa.

La commessa è salva, ma il paziente rischia di morire ugualmente, parafrasando il proverbio. Se il cambio delle singole commesse viene bloccato di volta in volta non posso avere la certezza di preservare il mio margine complessivo, perché alcune commesse potrei bloccarle su cambi che sono già in perdita per i miei margini.

Questo è un esempio di scarsa pianificazione, procedo per toppe successive, ma ciò non risolve. Così come è un’illusione il pensare di non avere il rischio perché lo si scarica sul Cliente finale (alzando i prezzi) o vendendo direttamente in Euro. Tranne rari casi di quasi monopolio, tali “soluzioni” non fanno altro che tirare la volata ai nostri concorrenti cinesi, come se ne avessero bisogno.