15 Aprile 2024

Uscita della merce nei 90 giorni

di Roberto Curcu
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La scheda di FISCOPRATICO

Nella bozza del D.Lgs. di riforma delle sanzioni fiscali, si trova un nuovo periodo all’articolo 7, D.Lgs. 472/1997, il quale prevede l’applicazione di una sanzione del 50% per chi effettua cessioni comunitarie non imponibili, ai sensi dell’articolo 41, D.L. 331/1993, lasciando che sia il cessionario a curare il trasporto, ed i beni non risultino pervenuti in altro Stato membro entro 90 giorni dalla consegna; sanzione che non trova applicazione quando, nei 30 giorni successivi, viene eseguito, previa regolarizzazione della fattura, il versamento dell’imposta.

Qualora dovesse andare tale testo in Gazzetta ufficiale, questa disposizione si aggiungerebbe a quella già prevista nel medesimo articolo e che sanziona, nella stessa misura e con le stesse modalità, chi effettua esportazioni con trasporto a cura del cessionario non residente, senza che la merce esca entro 90 (120) giorni dalla consegna; in questo secondo caso, tuttavia, l’articolo 8, comma 1, lettera b), D.P.R. 633/1972, prevede espressamente che, quando il trasporto è eseguito da o per conto del cessionario non residente la merce debba uscire dal territorio doganale dell’Ue nei successivi 90 giorni, mentre l’articolo 41, D.L. 331/1993, non prevede tale termine. Ci si trova, quindi, di fronte ad una norma che sanziona un comportamento/omissione, che non è previsto da una norma positiva, e ciò potrebbe portare anche a qualche forma di contenzioso.

In questa sede, tuttavia, ipotizziamo che sia “lecito” introdurre con un decreto legislativo dedicato alle sanzioni, una norma che limita il tempo massimo in cui deve essere effettuata una cessione comunitaria, e facciamo qualche considerazione.

La prima domanda che potrebbe sorgere è: può uno Stato membro introdurre limiti di tale tipo all’applicazione del regime di non imponibilità delle cessioni comunitarie? Ovviamente l’aspetto va analizzato tenendo conto che, nel Paese di destino, l’acquirente effettua, comunque, un acquisto intracomunitario assoggettato ad imposta di quel Paese, e quindi la norma italiana correrebbe il rischio di creare una doppia imposizione.

Un caso simile fu affrontato nella Causa C-09/84, nella quale un privato svedese acquistava in Gran Bretagna una barca (che era “nuova” in quel momento), rimaneva in acque britanniche per qualche mese, per poi portarla in Svezia, dove pretendeva di non essere assoggettato a tassazione, in quanto la barca era diventata “usata”. La questione verteva sul fatto che i privati sono tassati nel loro Paese, se fanno acquisti intracomunitari di mezzi di trasporto “nuovi”, mentre non sono assoggettati ad imposta nel loro Paese se acquistano mezzi di trasporto “usati”, dove l’utilizzo viene calcolato guardando le ore di navigazione ed il tempo trascorso dalla data di prima immatricolazione o iscrizione nei pubblici registri. La Corte di Giustizia, nel giungere alle conclusioni che questo privato svedese doveva pagare Iva svedese, diede importanti strumenti di interpretazione del diritto comunitario.

La Corte di Giustizia, in particolare, statuì che “una cessione intracomunitaria di un bene e il suo acquisto intracomunitario costituiscono, in realtà, un’unica e medesima operazione economica” e la realizzazione di tali operazioni non può dipendere dal termine entro il quale il trasporto deve avere inizio o deve concludersi, in quanto lascerebbe agli acquirenti la possibilità di “scegliere” lo Stato in cui un bene viene tassato. Il sistema dell’Iva, invece, prevede che, quando le condizioni sostanziali sono soddisfatte, si deve avere un acquisto comunitario tassato nel Paese di destino della merce, ed una cessione comunitaria esente (non imponibile) nel Paese di partenza.

Tuttavia, rilevando che la norma allora prevista dal Regno Unito prevedeva un termine entro il quale la merce doveva uscire per godere del regime di esenzione, la Corte rilevò che “qualora uno Stato membro assoggetti all’Iva, a causa del mancato rispetto del termine di trasporto previsto nella sua normativa nazionale, un’operazione conforme ai requisiti oggettivi di una cessione intracomunitaria, esso deve riconoscere il rimborso dell’imposta così pagata al fine di evitare una doppia imposizione  che possa derivare dall’esercizio delle proprie competenze da parte dello Stato membro di destinazione”.

Tale sentenza anticipò quello che, poi, fu statuito nella Sentenza C-563/12 e poi “recepito” con la prassi nazionale (risoluzione n. 98/E/2014), e cioè che è possibile richiedere al contribuente di assoggettare ad Iva un’operazione, quando la merce non sia uscita entro un certo termine, ma qualora si dimostri che, oltre tale termine, la stessa è uscita, si deve dare la possibilità di recuperare l’Iva a suo tempo addebitata. In sostanza, anche nelle cessioni intracomunitarie il meccanismo sarà quello di applicare l’Iva al 120° giorno, per poi poterla recuperare, qualora si abbiano le prove di uscita della merce, con emissione di nota di variazione in diminuzione (entro il termine della presentazione della dichiarazione Iva dell’anno in cui era caduto il 120° giorno e si era assoggettata ad Iva l’operazione), o anche oltre, con istanza di rimborso.

Ultime considerazioni: il termine dei 90 giorni, analogamente a quanto avviene con le esportazioni, decorre dalla consegna del bene, la quale sarà sicuramente comprovata da un DDT o una CMR, rimanendo irrilevante il momento di fatturazione. In sostanza, anche se la merce fosse già stata completamente fatturata nei mesi precedenti, si sarebbe dovuto avere riguardo al momento in cui il cessionario o un trasportatore da esso incaricato vengono in Italia a ritirare i beni.

La seconda considerazione è che – sempre analogamente alle esportazioni – nei 90 giorni la merce deve essere uscita, ma la prova può essere anche recuperata successivamente. In sostanza, al 90° o anche al 120° giorno si potrebbe ancora essere senza prova di uscita della merce, e qualora essa venga recuperata in tempi successivi, ma da essa si ricavi comunque che i beni sono arrivati in altro Stato membro entro i 90 giorni, nessuna sanzione è applicabile.

Fatte tali precisazioni, risulta ad avviso di chi scrive evidente che, con rare eccezioni, difficilmente un cessionario non residente rimane in Italia con un bene acquistato per più di 90 giorni, salvo il caso in cui lo debba fare lavorare da altri soggetti nazionali (caso che, ad avviso di chi scrive, deve essere risolto modificando le condizioni di consegna della merce tra primo cedente e lavorante). In sostanza, tale norma introduce una sanzione su una fattispecie di rara applicazione ed ha contestualmente il pregio di abbassare la sanzione dal 100% al 50% in tutti i casi di cessioni con trasporto a cura del cessionario (con clausole EXW, FCA, ecc…) ed impossibilità da parte del cedente di provare l’uscita della merce dall’Italia.