Utilizzo del deposito Iva per i beni consegnati in Italia in conto lavoro
di Marco PeiroloL’articolo 50-bis, comma 4, lett. h), del D.L. 331/1993, anche dopo le novità introdotte dal D.L. 193/2017, continua a prevedere che non danno luogo al pagamento dell’Iva “le prestazioni di servizi, comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali, relative ai beni custoditi in un deposito Iva, anche se materialmente eseguite non nel deposito stesso, ma nei locali limitrofi sempreché, in tal caso, le suddette operazioni siano di durata non superiore a sessanta giorni”.
A seguito della sentenza Equoland, resa dalla Corte di giustizia nella causa C-272/13, è stato precisato dall’Agenzia delle Entrate che, “salvo quanto di seguito specificato con riferimento ai beni oggetto delle prestazioni di servizi di cui articolo 50-bis, comma 4, lett. h), le merci, per essere considerate introdotte nel deposito IVA, devono entrarvi materialmente, essendo il deposito Iva un vero e proprio luogo fisico, in cui devono essere assolte in ogni caso le funzioni di stoccaggio e custodia, che giustificano economicamente e giuridicamente il contratto di deposito” (circolare n. 12/E/2015).
Potrebbe, però, accadere che la lavorazione sia resa al di fuori del deposito Iva o dei locali ad esso limitrofi.
È il caso, per esempio, della società italiana che acquista materiali di provenienza extracomunitaria con consegna in Italia ai fini della lavorazione, al termine della quale i beni risultanti dalla prestazione saranno venduti in Italia o in altri Paesi (UE o extra-UE).
Nella fattispecie descritta, l’utilizzo del deposito Iva consente alla merce estera di non pagare l’Iva all’importazione se viene immessa in libera pratica con introduzione nel deposito comprovata dalla presentazione in dogana di un documento, sottoscritto dal gestore del deposito, dal quale risulti la “presa in carico” della merce stessa nell’apposito registro previsto dall’articolo 50-bis, comma 3, del D.L. 331/1993. È noto, infatti, che possono essere introdotti e custoditi nel deposito Iva soltanto i beni nazionali e comunitari, compresi quelli provenienti da Paesi extra-UE previamente immessi in libera pratica, avendo così acquisito la posizione doganale di merce comunitaria. Sono, invece, esclusi dalla disciplina dei depositi Iva i beni esistenti in Italia in regime di ammissione temporanea ovvero introdotti in recinti o magazzini di temporanea custodia in attesa di ricevere una destinazione doganale, nonché quelli importati a scarico di un regime di perfezionamento attivo con la modalità dell’esportazione anticipata (circolare n. 12/E/2015).
L’agevolazione in esame, vale a dire il mancato pagamento dell’imposta in dogana, presuppone, salvi i casi di deroga, che il proprietario dei beni importati o un soggetto terzo per suo conto presti la garanzia richiesta dall’articolo 50-bis, comma 4, lett. b), del D.L. 331/1993, per un importo corrispondente all’Iva dovuta in dogana e fino all’estrazione dal deposito.
Se la lavorazione non è effettuata nel deposito o in un locale ad esso limitrofo si rende necessario provvedere all’estrazione dei beni dal deposito, che essendo eseguita ai fini del loro utilizzo nel territorio dello Stato dà luogo all’applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 50-bis, comma 6, del D.L. 331/1993.
L’imposta, in tal caso, va assolta con il meccanismo del reverse charge, previa prestazione di idonea garanzia con i contenuti, secondo modalità e nei casi definiti dal D.M. 23 febbraio 2017. Nella specie, il soggetto estrattore deve emettere un’autofattura, assumendo come base imponibile il corrispettivo relativo all’operazione non assoggettata all’imposta per effetto dell’introduzione.
Al termine della lavorazione, i beni ceduti a clienti di altri Paesi UE o extra-UE dovranno essere normalmente fatturati in regime di non imponibilità di cui all’articolo 41 del D.L. 331/1993 o all’articolo 8 del D.P.R. 633/1972, a seconda della loro destinazione (intra-UE o extra-UE), mentre le cessioni a clienti nazionali daranno luogo all’addebito dell’imposta in fattura.
Laddove l’acquisto dei materiali di provenienza extracomunitaria, con introduzione nel deposito Iva, sia effettuato da una società non residente, è necessaria l’apertura di una posizione Iva in Italia, in quanto l’estrazione dei beni dal deposito ai fini della lavorazione richiede che l’imposta sia assolta da un soggetto passivo stabilito (anche mediante stabile organizzazione) o quantomeno identificato, laddove, a quest’ultimo riguardo, la rappresentanza cd. “leggera” del gestore del deposito Iva non è sufficiente nelle ipotesi in cui l’estrazione comporti l’applicazione dell’imposta.
L’identificazione ai fini Iva in Italia della società estera è indispensabile anche per la gestione delle successive cessioni con spedizione/trasporto dei beni in altri Paesi (UE o extra-UE), trattandosi di operazioni territorialmente rilevanti ex articolo 7-bis, comma 1, del D.P.R. 633/1972, sia pure in regime di non imponibilità. Per i beni che, invece, sono ceduti a clienti nazionali, soggetti passivi Iva, l’articolo 17, comma 2, del D.P.R. 633/1972 prevede che la relativa imposta sia assolta con il meccanismo del reverse charge, per cui la posizione Iva aperta in Italia della società estera non può addebitare l’imposta in fattura.