10 Settembre 2013

Utilizzo di fatture false: uno “sport” nazionale?

di Massimiliano Tasini
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Le contestazioni in materia di utilizzo di fatture a fronte di operazioni ritenute inesistenti sono ormai all’ordine del giorno; viene spontaneo interrogarsi sulle ragioni sottese a tale stato di cose.

In realtà, a noi pare che l’aumento delle contestazioni sia il frutto dei molteplici equivoci interpretativi che sempre più sono alimentati da una legislazione schizofrenica, a fronte della quale la giurisprudenza, anche di legittimità, ha fornito soluzioni da un lato tutt’altro che univoche, dall’altro progressivamente tendenti a legittimare un ampissimo utilizzo delle presunzioni.

Queste considerazioni sono ben presenti nei verificatori, i quali portano avanti rilievi magari ritenuti al momento del tutto infondati ma che a distanza di anni trovano un sigillo di legittimitá. Pur nella piena consapevolezza dell’approssimatezza di questo ragionamento, è cosi che sono nati i “teoremi” della ristretta base azionaria, dell’antieconomicità, dell’abuso del diritto, del tovagliometro.

E così è anche sul tema false fatture.

Basti pensare a cosa è accaduto in materia di costi da reato, dove il Legislatore é intervenuto ad un “soffio” dalla pronuncia di illegittimità dell’art. 14 della Legge n.537/1993 da parte della Consulta: dopo vent’anni emergono improvvisamente i motivi di necessità ed urgenza che giustificano l’inserimento di una modifica in un decreto legge – art. 8 D.L. n.16/12 – una norma che pone criticità rilevanti sulle quali era agevole immaginare l’emersione di vibranti contrasti interpretativi, il che si è puntualmente verificato proprio sul tema che qui ci occupa.

Sul piano tributario, la Corte di Cassazione ha pericolosamente oscillato tra tesi tradizionale – l’onere della prova della fittizietà incombe sul fisco – e tesi “colpevolista” – se il fisco dice che la fattura é falsa è il contribuente a dover provare l’esistenza del costo -, per poi pervenire alla tesi attuale, secondo la quale al fisco compete l’onere di dimostrare l’esistenza di indizi che lascino supporre la falsità, ed allora l’onere della prova – contraria – si scarica sul contribuente. Questa tesi, evidentemente, incentiva il rilievo di utilizzo di fatture false, nella misura in cui legittima un ampio uso di presunzioni che dovranno passare al vaglio del giudice tributario e di quello penale, il quale ultimo peró certamente le valuterà con maggior rigore, anche in considerazione della profonda divergenza delle regole in materia di onere della prova sottese al rito penale.

L’imprenditore, tuttavia, è talora “schiacciato” da tali presunzioni, poiché l’avvio di due procedimenti, uno tributario e l’altro penale, non solo é dispendioso sul piano delle energie e su quello economico, ma spesso lungo e, per quanto detto sopra, dall’esito incerto. Nel frattempo è pressato dalla riscossione frazionata, dai sequestri in sede penale – art. 322 C.p. – e tributaria – art. 22 D.Lgs. n.472/1997 -, fra l’altro tra loro addirittura nemmeno incompatibili, dalla eventuale impossibilità a contrarre con la Pubblica Amministrazione e da quella di incassare dalla stessa Amministrazione le somme dovute per effetto di appalti e forniture.

Una classica applicazione concreta della contestazione é data dai tanti rilievi in materia di sponsorizzazioni, nei quali spesso la fattispecie è – pure – formulata sul duplice piano della inesistenza della prestazione e della non inerenza del costo, magari evocando l’antieconomicità. È una situazione paradossale, poiché, ognun vede, solo ciò che esiste puó essere inerente o meno.

Eppure, sono contestazioni frequenti, cosi come lo sono quelle relative alla natura fittizia di certe fatture senza peró che venga specificato se si verta su fittizietà oggettiva o soggettiva, in questo caso anche con l’avallo dell’Agenzia delle Entrate, eppure é chiaro che in caso di fittizietà soggettiva il costo è deducibile in presenza degli altri requisiti fissati dall’art. 109 Tuir.

E gli equivoci si riflettono e si amplificano quando si ragiona degli effetti degli accertamenti emessi sulla società nei riguardi dei soci, sui quali viene emesso un accertamento Irpef pro-quota, atteso che é impossibile, logicamente prima ancora che giuridicamente, accertare ex ristretta base azionaria un socio di srl se non c’è utile distribuibile: eppure, alcuni uffici invece ribaltano il reddito sui soci di srl addirittura in presenza di rettifiche per costi non inerenti sulla società.

Riprendendo il tema delle sponsorizzazioni, anche in questo caso gli accertamenti sono senza dubbio “spinti” da un revirement della Cassazione, la quale ha in più sentenze messo in discussione la deducibilità di tali costi, ad esempio in ragione del (ritenuto) difetto di inerenza, stante la diffusione del “mero” marchio dell’azienda, in luogo del prodotto. Molto spesso però il rilievo é formulato anche sul piano del difetto di esistenza, magari parziale, della prestazione indicata in fattura, ad esempio rilevando che il dominus della cedente in passato è stato dedito all’emissione di fatture false e rimarcando l’eccessività del costo.

In un quadro quale quello descritto, sarebbe auspicabile un intervento legislativo teso ad introdurre una soglia di punibilità nell’art. 2 del D.Lgs. n.74/00, ad evitare che le Procure siano intasate di liti bagatellari, e dunque con offensività oggettivamente assai ridotta, e dall’altro che in sede di accertamento con adesione gli uffici finanziari, nei casi dubbi, si rendano disponibili a riqualificare i costi inesistenti in costi “meramente” indeducibili per difetto di inerenza, trasmettendo poi l’informativa all’Autorità Giudiziaria, già notiziata ex art. 331 C.p.p., affinché la stessa operi le opportune valutazioni.