Ancora sulla valenza del contraddittorio negli studi di settore
di Comitato di redazioneVisto che siamo alle porte del termine per l’invio delle dichiarazioni del periodo di imposta 2015, ci è parso opportuno tornare sulla vicenda degli studi di settore in una ottica di valutazione di adeguamento al risultato proposto da Gerico.
Tale valutazione, talvolta, viene arginata alle ultime fasi di chiusura delle dichiarazioni, al fine di poter valutare con maggiore serenità la posizione del contribuente; in tale ambito, cogliamo lo spunto dalla emanazione della recente sentenza 15604, depositata dalla Cassazione in data 27 luglio scorso.
La vicenda appare orami una sorta di “pantone”: l’Agenzia convoca il contribuente, si svolge un contraddittorio ritenuto non soddisfacente dalle parti e si giunge all’emanazione dell’avviso di accertamento.
Nel caso in analisi, infatti, il ricorrente (produttore di calzature) deduceva l’invalidità per difetto di motivazione, rispetto alle giustificazioni e precisazioni offerte nel corso del contraddittorio preventivo; l’illegittimità per l’insussistenza dei presupposti, in specie delle “gravi incongruenze” fra i ricavi presunti e quelli dichiarati; la natura di mera presunzione semplice del risultato dello studio di settore, quindi inidonea a sostenere da sola la pretesa impositiva; la non rappresentatività dello studio di settore applicato (in quanto inadatto a cogliere la peculiare situazione del contribuente, incapace di valorizzare la temporanea crisi del settore calzaturiero, inadeguato a recepire le numerose variabili indipendenti). La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva parzialmente il ricorso disponendo la rettifica dell’avviso di accertamento (in modo che i ricavi fossero assunti nell’importo corrispondente al minimo ammissibile, pari ad € 22.540,00, in ragione del fatto che nel 2001 il contribuente aveva subito un infortunio), e compensava interamente tra le parti le spese del giudizio.
Insoddisfatto della pronuncia, il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale rigettava il gravame, confermando la sentenza impugnata e compensando le spese del secondo grado, valorizzando l’esito del contraddittorio preventivo, che aveva condotto all’applicazione di uno studio di settore evoluto rispetto a quello originariamente applicato, e ritenendo che in sede contenziosa il contribuente non avesse apportato ulteriori elementi atti a rimuovere le conclusioni dell’Ufficio (fatto salvo quello relativo all’infortunio subito nell’anno d’imposta considerato, già valutato dal primo giudice), essendo generici e solo enunciati i riferimenti alle ridotte dimensioni aziendali ed alla crisi del settore calzaturiero, nonché irrilevante la circostanza del numero ridotto di committenti (per non aver provato il ricorrente quale concreto contributo questa avrebbe determinato in termini di minori ricavi e minor reddito rispetto ai risultati dello studio di settore). Infine, i giudici regionali reputavano non sufficientemente supportato da elementi tecnici il motivo concernente l’utilizzazione di uno strumento (una trancia), che si sarebbe rivelato “sovradimensionato”.
La pronuncia d’appello è stata impugnata in Cassazione, sostenendo, tra gli altri motivi, il fatto di non avere “aderito” alla semplice applicazione dello studio evoluto. La Corte, invece, precisa che dalla sentenza impugnata risulterebbe che la mancata adesione non ha riguardato la sussistenza delle condizioni per l’applicabilità di detto studio, quanto piuttosto le specifiche circostanze di esercizio della propria attività (mancanza di dipendenti, limitato numero di committenti, utilizzazione ridotta di alcuni beni e obsolescenza di altri), che hanno indotto il contribuente a richiedere “una congrua riduzione dei maggiori ricavi accertabili …” proprio sulla base dello studio di settore revisionato.
Pertanto, a parere della CTR, si è ritenuto di far gravare sul contribuente l’onere di provare le circostanze di fatto addotte per escludere specificamente la propria impresa dall’area di quelle cui sono applicabili gli standard normali e l’incidenza di queste circostanze sulla redditività della stessa impresa nel periodo considerato (letteralmente, “ben può il contribuente condividere l’applicazione di uno studio di settore, ma contestare i risultati di siffatta applicazione nel caso concreto, in ragione della peculiarità della situazione aziendale dedotta in generale o con riguardo a specifici ambiti temporali”).
In merito alle altre affermazioni del contribuente in sede di contraddittorio, viene confermato l’apprezzamento fattone dai giudici regionali, essendosi limitato ad “enunciare” gli elementi a sostegno del proprio assunto, senza però dare la prova della loro incidenza in termini di minori ricavi e minor reddito rispetto ai risultati dello studio di settore.
Su questo aspetto, peraltro, interviene la Cassazione, affermando che il ricorrente continua a riproporre le medesime enunciazioni esaminate dal giudice, senza individuare elementi o dati di fatto emersi in giudizio che, se considerati dal giudice di merito, avrebbero dovuto condurre all’affermazione dell’idoneità delle circostanze di fatto anzidette a giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe normale e quindi presuntivamente vero in assenza di esse.
Ci pare l’ennesima pronuncia che afferma un principio basilare ed imprescindibile: il soggetto che intenda discostarsi dalle risultanze dello studio di settore ha il preciso onere di segnalare quali siano gli aspetti del calcolo di Gerico che non colgono in modo preciso la situazione reale e concreta, differente da quella astratta considerata.
Lo sappiamo che sono affermazioni altamente teoriche, rilasciate da soggetti che non hanno mai provato a compilare ed analizzare uno studio di settore; ma, proprio per questo motivo, l’unico antidoto che può funzionare ragionevolmente in giudizio, a nostro parere, è la nota metodologica, in quanto rappresenta una base documentale certa ed ufficiale. Indicando le anomalie presenti nel documento (ove raffrontate con la situazione reale ed effettiva del contribuente) si dovrebbe riuscire a ribaltare sull’Ufficio l’onere probatorio, rispettando la rigida chiave interpretativa sulla quale si è ormai consolidata la Cassazione.
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