Validità degli atti emessi da funzionari illegittimi
di Luigi FerrajoliLa sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015 ha destato clamore alla luce delle potenziali ripercussioni sulla validità degli atti impositivi emessi da dirigenti nominati in assenza di un regolare concorso pubblico.
Ai fini della piena e corretta comprensione della decisione dal punto di vista amministrativistico è opportuno premettere che la Corte Costituzionale ha chiarito quale fosse il problema di fondo relativo alla modalità di copertura delle posizioni dirigenziali vacanti in seno all’AdE.
Secondo la Consulta, l’Amministrazione finanziaria avrebbe violato il dettato costituzionale che impone di conferire incarichi dirigenziali nell’ambito di una pubblica amministrazione (anche a dipendenti già in servizio) solo attraverso un concorso pubblico.
La nomina dirigenziale attuata senza previo esperimento di concorso e reiterata negli anni in nome dell’esigenza di funzionamento dell’AdE, stante l’assenza del requisito della provvisorietà, aveva completamente disatteso la previsione costituzionale.
Il problema evidenziato dalla Corte Costituzionale riguarda la circostanza che tale illegittimo comportamento non risulta inquadrabile nei due differenti istituti (riconducibili all’ambito del diritto amministrativo) dell’affidamento e della reggenza.
Il modello dell’affidamento di mansioni superiori ad impiegati appartenenti ad un livello inferiore è disciplinato dall’art.52 D.Lgs. n.165/2001; questa disposizione riguarda non l’attribuzione delle qualifiche ai dipendenti di una pubblica Amministrazione bensì la classificazione del personale: ne consegue l’illegittimità della sua applicazione ai fini del passaggio dalla qualifica di funzionario ad una dirigenziale.
Inoltre l’Amministrazione finanziaria, al fine di assegnare a funzionari già in organico posizioni dirigenziali, avrebbe teoricamente potuto fare ricorso ad un differente istituto, ovverosia quello della reggenza, disciplinato dall’art.20 d.P.R. n. 266/1987, finalizzato ad evitare vacanze in posizioni strategiche dovute all’azione di cause non prevedibili.
Ne consegue che una nomina dirigenziale posta in essere in mancanza del rispetto dei requisiti di temporaneità e straordinarietà non avrebbe potuto dirsi conforme ai precetti costituzionalmente sanciti.
La Corte Costituzionale ha quindi affermato che l’AdE avrebbe dovuto piuttosto fare riferimento allo strumento della delega a funzionari di atti a competenza dirigenziale, che avrebbe consentito alla stessa l’emanazione di atti impositivi senza dover ricorrere a nomine illegittime.
Attraverso la delega di firma (che comporta l’autorizzazione per il delegato a siglare in vece del delegante l’atto amministrativo, comunque riconducibile al primo) o di funzioni (che implica l’attribuzione non solo della firma, ma della competenza vera e propria al delegato) l’Amministrazione finanziaria avrebbe potuto soddisfare le proprie esigenze operative senza scadere in illegittimità di sorta.
Ma quali effetti avrà concretamente la citata sentenza?
Il contribuente potrà censurare l’atto impositivo invocando la violazione dell’art. 42 del D.P.R. n.600/1973, che, relativamente alle imposte sui redditi, prevede che l’avviso di accertamento sia nullo ove non sottoscritto dal capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da quello delegato (ed a quella disposizione rimanda l’art. 56 del D.P.R. n.633/1972 per quanto inerente all’IVA); il successivo art. 61 comma 2 statuisce inoltre che “la nullità dell’accertamento ai sensi del comma 3 dell’articolo 42 (nullità per mancanza della sottoscrizione) (…) deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”.
L’eccezione può quindi essere utilmente sollevata per il mezzo del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, mentre qualche dubbio sorge per coloro i quali fossero in grado di proporre detta censura solo attraverso l’atto di appello.
Stante la natura retroattiva della declaratoria di nullità della norma riconosciuta incostituzionale, l’appellante potrà comunque instare affinché il Giudicante riconosca non essere questi decaduto dal potere di sollevare l’eccezione de qua, con il solo limite del già avvenuto esaurimento del rapporto giuridico interessato dall’applicazione della norma stessa.
Ergo: ove relativamente al rapporto giuridico considerato sia sopravvenuta la pronuncia di una sentenza passata in giudicato, oppure si siano verificate una prescrizione od una decadenza, il rapporto de quo (una volta “cristallizzatosi”) non potrà essere rimesso nuovamente in discussione nonostante la pronuncia di incostituzionalità.
Infine, qualora il Giudicante propendesse comunque per rilevare nel secondo grado di giudizio la maturazione della predetta decadenza processuale e ritenesse pertanto non proponibile l’eccezione di nullità (in quanto “eccezione nuova non rilevabile d’ufficio”), si potrebbe avanzare richiesta al Collegio di rimessione in termini (pacificamente applicabile anche nel giudizio tributario) ex art. 153 c.p.c., così come modificato dalla L. n.69/2009, che prevede che: “la parte che dimostra di esser incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini…”.