Il valore normale dei costi black list
di Pietro VitalePer il solo periodo di imposta 2015 (considerando i soli soggetti con esercizio solare) i costi black list derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti ovvero localizzate in Stati o territori aventi regimi fiscali privilegiati individuati dal D.M. 23.01.2002 (in guisa dell’assenza di uno scambio di informazioni), per effetto delle modifiche apportate all’articolo 110, commi 10 e 11, del TUIR dall’articolo 5 del D.Lgs. 147/2015, sono ammessi in deduzione nel seguente modo:
- automaticamente entro il limite del valore normale determinato ai sensi dell’articolo 9 del TUIR. Non sono state date indicazioni su quali possano essere le metodologie atte ad individuare tale valore normale (occorre indicare tale importo nel rigo RF 29 ed RF 52 colonna 2);
- per la parte eccedente il valore normale, previa dimostrazione in sede di controllo dell’effettivo interesse economico ad instaurare un’operazione con un fornitore black list (occorre indicare tale importo nel rigo RF 29 ed RF 52 colonna 1);
- purché l’operazione con il fornitore black list abbia avuto concreta esecuzione nel senso che non sia fittizia. All’uopo è di ausilio la documentazione doganale di importazione, il contratto di fornitura/ordine di acquisto, le contabili bancarie attestanti il pagamento.
Non è, quindi, più contemplata l’esimente rappresentata dall’effettivo svolgimento di una attività commerciale da parte del fornitore estero in virtù del fatto, come da più parti richiesto, che era difficile per il contribuente ottenere la documentazione solitamente richiesta per la dimostrazione di tale esimente, abrogata proprio al fine di attribuire maggior certezza (così si esprime la relazione tecnica allo schema del decreto internazionalizzazione).
In relazione al punto sub a), è stata introdotta una presunzione legale di deducibilità del costo black list effettivamente sostenuto nel limiti del valore normale. Il richiamo all’articolo 9 fa sì che tale valore sia ben individuabile in relazione alle ipotesi specifiche di cui al comma 4, lettere a) (azioni quotate), b) (altre azioni) e c) (obbligazioni e titoli atipici). Per le altre tipologie di costi, il valore normale resta da individuare prendendo a riferimento “il corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati – (il mercato dell’acquirente?) –, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore” (comma 3).
In pratica, al fine di determinare quale sia il valore normale, sembra potersi concludere che occorra fare riferimento alle regole canoniche in tema di transfer pricing, seppur il fornitore non faccia parte del gruppo, utilizzando i metodi OCSE. Al riguardo, si precisa che il criterio del CUP è da preferire anche se esso è applicabile solo in caso di perfetta comparabilità (anche attraverso facili adjustments) delle transazioni. Provando ad esemplificare (senza pretese di esaurire la materia):
- qualora i beni siano alquanto standardizzati, occorrerebbe ricercare i prezzi di tali beni in transazioni similari. Ma in quale mercato? Sono percorribili le seguenti due strade di cui si preferisce la prima.
- Dal testo della prima parte del comma 3 dell’articolo 9 del TUIR sembra preferibile ricercare il valore normale nel mercato dell’acquirente italiano (infatti la vendita di beni a prezzi differenti può essere giustificata dal differente mercato di destinazione). Tale soluzione è anche avvalorata dalla M. n. 32/9/2267/1980 (il linea con le linee guida Ocse para 3.24) in cui ai fini del CUP occorre guardare il mercato del destinatario. Ciò significa che occorre verificare la presenza di vendite di quel fornitore black list ad altre aziende italiane (internal comparable) ovvero vendite (ovviamente simili) di altri fornitori localizzati sempre nel medesimo stato black list ad altre aziende italiane (external comparable) ed ovviamente anche altri acquisti fatti dalla società italiana dei medesimi beni. Per la C.M. 32 il mercato del venditore può essere considerato solo laddove esso sia simile a quello del destinatario. In tale ottica, la seconda parte del comma 3 (che dà rilievo al mercato del venditore) sarebbe applicabile solo in via residuale. Per i finanziamenti rileverebbe il mercato del mutuante.
- Per la sentenza della Cassazione 23/10/2013 n. 24005, la prima e seconda parte del comma 3 danno, invece, rilievo al mercato del cedente e non quello di destinazione dell’acquirente. A ben vedere tale sentenza riguardava un particolare caso di una stabile organizzazione che vendeva al suo headquarters che a sua volta nel suo Stato non aveva transazioni comparabili indipendenti, pertanto, tale principio non dovrebbe essere inteso come applicabile tout court;
- ove non risulti applicabile il CUP, come ad esempio nelle produzioni di beni unici su commessa si potrebbe individuare il valore normale utilizzando il metodo del cost plus. In tale caso sarebbe opportuno acquisire il pool di costi che il fornitore sostiene per onorare la fornitura ed applicarvi un mark up a valore normale. In ottica di cost plus la base di costo sarebbe sempre deducibile mentre solo il mark up sarebbe sindacabile. In alternativa si potrebbe sempre dimostrare il valore normale conservando preventivi di altri fornitori che evidenzino i motivi della scelta di quel determinato fornitore;
- laddove il fornitore lavori solo per l’impresa italiana, si potrà utilizzare ad esempio il TNMM con i vari profit level indicator per esso previsti.
A ben vedere i sopra citati metodi richiedono la conoscenza di informazioni ottenibili dal soggetto terzo solo in ipotesi di una sua appartenenza al gruppo. Sembrerebbe che l’unica difesa per il contribuente sia quella di conservare i listini del fornitore black list verso il “giusto” mercato.
È, quindi, del tutto palese come il riferimento al valore normale operante per il solo 2015 porti di nuovo ad incertezze.
Fortunatamente dal 2016 l’incertezza è stata eliminata essendo applicabili le ordinarie regole di deducibilità anche per i costi black list (resta il valore normale per i costi black list intercompany). C’è da augurarsi che tali regole ordinarie siano applicate dai verificatori già per il 2015 stante la difficoltà di individuare il valore normale.
In relazione all’effettivo interesse economico, si evidenzia come esso debba ritenersi sussistente laddove l’operazione sia in primis inerente all’attività di impresa, avendo, poi, riguardo alle scelte strategiche ed economiche che spingono ad affidarsi a un fornitore black list, come, ad esempio: le caratteristiche intrinseche del prodotto (non altrove reperibile, Cassazione n. 10749/2013), le esigenze di mercato, la puntualità (Cassazione 8/5/2013 n. 10749; CTR Marche 22/6/2010 n. 5), l’affidabilità, le modalità di consegna, l’infungibilità della prestazione (Cassazione n. 10176/2016). Si veda sul punto anche la circolare n. 51/E/2010 secondo cui occorre dare rilevanza “alle condizioni complessive dell’operazione, quali ad esempio il prezzo della transazione; la presenza di costi accessori, quali, ad esempio, quelli di stoccaggio, magazzino; le modalità di attuazione dell’operazione (ad esempio, i tempi di consegna); la possibilità di acquisire il medesimo prodotto presso altri fornitori; l’esistenza di vincoli organizzativi/commerciali/produttivi che inducono ad effettuare la transazione con il fornitore black list o, comunque, che renderebbero eccessivamente onerosa la medesima transazione con altro fornitore. Un prezzo apparentemente anomalo può essere giustificato dalla valutazione delle altre condizioni che regolano la transazione e, quindi, non pregiudicare la sussistenza dell’effettivo interesse economico all’operazione”.
Si ricorda, infine, che l’omessa indicazione in Unico dei costi black list è sanzionata in misura pari al 10% dell’importo non indicato con un minimo di 500 euro ed un massimo di 50.000 euro.
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