Valore probatorio del patteggiamento nel contenzioso tributario
di Angelo GinexIl patteggiamento in sede penale non sovverte il quadro probatorio in sede tributaria, in quanto il soggetto può legittimamente utilizzare autonome strategie processuali e, per tal ragione, indursi a concordare una pena per ragioni di mera opportunità, quali la riduzione dei tempi di giustizia e dei costi del procedimento. È questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione con ordinanza 12 febbraio 2018, n. 3284.
La vicenda trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento attraverso cui l’Agenzia delle Entrate contestava al contribuente l’emissione di fatturazioni inesistenti, con conseguente recupero dell’Iva detratta. Unitamente all’atto impositivo veniva, altresì, presentata denuncia penale, la quale attivava di fatto un procedimento penale nei suoi confronti per violazione dell’articolo 2 D.Lgs. 74/2000, conclusosi con una sentenza di patteggiamento, disciplinato dall’articolo 444 c.p.p..
In sede tributaria, per converso, i giudici di prime cure provvedevano ad annullare l’atto impositivo, ritenendo fondate le ragioni addotte dal contribuente, peraltro corroborate dalla produzione di elementi probatori attestanti l’effettività dei lavori svolti e delle spese sostenute.
I giudici del gravame aditi provvedevano, successivamente, a rigettare l’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria, la quale, quindi, proponeva ricorso per cassazione sull’assunto che i predetti giudici non avessero considerato nel proprio provvedimento la circostanza della conclusione di un procedimento penale per lo stesso fatto, con pena concordata.
I Supremi giudici, rigettando il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e condannandola a rifondere le spese processuali alla controparte, hanno colto l’occasione per chiarire un’annosa questione concernente i rapporti tra processo tributario e processo penale, con particolare riferimento alla sentenza di patteggiamento.
Giova ribadire che il nostro sistema giuridico si regge sul principio del doppio binario tra la giustizia tributaria e quella penale, di cui all’articolo 20 D.Lgs. 74/2000. Pertanto, nessuna autorità di giudicato assumono le sentenze penali di condanna o di assoluzione in sede tributaria, benché siano esaminati gli stessi fatti, atteso che vigono i limiti sulla circolazione delle prove previsti dall’articolo 7 D.Lgs. 546/1992.
Il giudice, tuttavia, è tenuto a verificare la rilevanza delle risultanze penali rispetto alla fattispecie tributaria in esame e a darne conto nel percorso argomentativo contenuto nella motivazione, in special modo se ritiene di doversene discostare (cfr., ex multis Cassazione, sentenze nn. 9442/2017, 6211/2015, 8129/2012, 19786/2011, 20740/2010).
Con particolare riferimento alla sentenza di patteggiamento, l’orientamento giurisprudenziale diventa ancor più risoluto, in quanto, pur non acquisendo efficacia di giudicato, essa costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale se vuole discostarsene deve motivarne le ragioni in sentenza (cfr., Cassazione, sentenze nn. 13034/2017 e 27196/2014). Ne consegue che il contribuente condannato in sede penale può anche essere assolto in sede tributaria, e viceversa (cfr., Cassazione, sentenza n. 16262/2017).
Con la richiamata pronuncia è stato quindi confermato che i giudici possono discostarsi dalla sentenza di patteggiamento in ragione della duplicità delle strategie che il contribuente può adottare in sede penale e tributaria, potendo legittimamente concordare la pena per mere ragioni di opportunità, come la riduzione dei costi e dei tempi di giustizia o per evitare ripercussioni alla propria immagine, senza che ciò infici l’esame del giudice tributario.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, è legittima la detrazione dell’Iva se, in sede tributaria, il contribuente dimostra che ad una fattura (presuntivamente) fraudolenta, per la quale ha patteggiato una pena, corrisponde un’effettiva operazione commerciale.
A sommesso parere dello scrivente, l’odierno orientamento della Suprema Corte rischia di creare riflessi ambigui nel giudizio tributario e di svilire la condanna in sede penale.
Il patteggiante addurrà, infatti, motivazioni di mera convenienza processuale, al fine di persuadere il giudice tributario a non tener conto della sentenza ex articolo 444 c.p.p.; mentre la controparte la strumentalizzerà per ottenere una sentenza di condanna anche in tale sede.
Resta, pertanto, al giudice l’arduo compito di prendere in considerazione o di discostarsi dalle risultanze penali, sulla base delle prove addotte dalle parti nel giudizio tributario.