Valutazione del comportamento antieconomico del contribuente
di Marco BargagliNel folto panorama giurisprudenziale di riferimento, assistiamo ad alcune sentenze che si esprimono in seguito a controversie Fisco – contribuente sul tema dei comportamenti antieconomici che, in assenza di valide ragioni economiche, possono anche comportare l’accertamento di un maggior reddito imponibile.
A titolo esemplificativo, si cita l’orientamento espresso in apicibus dalla suprema Corte di Cassazione, sezione Tributaria, con la sentenza numero 6656 depositata in data 6 aprile 2016, nella quale è stato chiarito che grava sull’Amministrazione l’onere di dimostrare che un’operazione antieconomica, realizzata mediante transazioni effettuate con una società controllata o controllante estera, sia riferibile ad un maggiore reddito imponibile.
Nel caso sottoposto al vaglio dei supremi giudici tributari, l’Agenzia delle Entrate constatava nei confronti della società verificata l’occultamento dei ricavi, nell’ambito dei rapporti economici e commerciali intercorsi con un’impresa estera controllata.
In particolare, la società estera avrebbe fatturato costi di pubblicità alla società italiana per la vendita di prodotti nel Paese estero, che si erano poi rivelati superiori ai ricavi derivanti dalle vendite dei medesimi beni reclamizzati sul mercato estero.
Quindi, l’Agenzia delle Entrate evidenziava che l’operazione effettuata da parte dell’impresa italiana risultava antieconomica, in quanto la cessione era avvenuta a prezzi inferiori rispetto ai costi di pubblicità sostenuti.
In buona sostanza:
- con un “incremento fittizio” dei costi di pubblicità si sarebbe ottenuta un’indebita diminuzione del reddito dell’impresa residente in Italia;
- la differenza tra l’importo ricavato dalle vendite e quanto realmente speso in costi di pubblicità, avrebbe rappresentato la maggiore base imponibile da recuperare a tassazione.
Più di recente, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con la sentenza n. 5162/03/2017 depositata il 9 agosto 2017, si è nuovamente espressa in tema di comportamenti palesemente antieconomici.
La società verificata era controllata da una società estera e deteneva, a sua volta, varie partecipazioni in altre imprese consociate, nei confronti delle quali erogava vari servizi.
L’Agenzia delle Entrate, valutando il comportamento del contribuente antieconomico, aveva contestato non tanto “l’effettività dei costi sostenuti dalla società verificata”, bensì l’indeducibilità di una parte degli oneri, tenuto conto che una frazione di essi avrebbero dovuti essere riaddebitati alle altre imprese del Gruppo, per la parte di loro competenza.
Il giudice tributario fa prima riferimento al consolidato orientamento espresso in sede di legittimità in tema di accertamento delle imposte dirette, sulla base del quale l’Agenzia delle Entrate può sindacare la congruità dei costi annotati in contabilità per la determinazione del reddito di impresa, qualora il contribuente abbia “adottato un comportamento che appaia manifestamente ed inspiegabilmente antieconomico”, tale da legittimare la presunzione, grave precisa e concordante, ex articolo 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. 600/1973.
In buona sostanza, il costo sostenuto non soddisferebbe il prescritto requisito dell’inerenza quantitativa, intesa quale riferibilità della spesa a una attività produttiva di ricavi o comunque di proventi che concorrono alla formazione del reddito del soggetto che ha effettuato la deduzione.
Ciò posto, la Commissione Tributaria Provinciale di Milano ha accolto il ricorso del contribuente, tenuto conto che i verificatori avrebbero disatteso i criteri di attribuzione dei costi adottati dalla società verificata non perché ritenuti evidentemente incongruenti, ma adottando una diversa metodologia di accertamento incentrata sulle spese per il personale, connotata da elementi di indeterminatezza ed articolata su operazioni estremamente complesse effettuate al fine di separare i componenti positivi e negativi riconducibili alle due funzioni svolte dalla società verificata (funzione di direzione piuttosto che di fornitura di servizi alle società partecipate).
Di contro, la violazione del principio di economicità può operare ai fini fiscali soltanto in presenza di un comportamento della società commerciale “manifestamente e palesemente” antieconomico, circostanza che non traspare adeguatamente nella motivazione contenuta negli atti di accertamento.
Inoltre, a parere del giudice di prime cure, non si rende applicabile neanche la speciale disciplina sui prezzi di trasferimento infragruppo ex articolo 110, comma 7, del D.P.R. 917/1986, tenuto conto che le transazioni economiche in rassegna sono avvenute tra soggetti economici aventi tutti sede nel territorio dello Stato.
Simmetricamente, ai fini Iva, tenuto conto che in giudizio è emerso che la società verificata non ha praticato prezzi inferiori al valore effettivo delle prestazioni, ne deriva che la stessa non aveva l’obbligo di fatturare somme non incassate, anche considerato che la fattura di vendita deve essere emessa al momento dell’effettuazione dell’operazione imponibile e che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo (ex articolo 6, comma 3, del D.P.R. 633/1972).