23 Luglio 2015

Voluntary, prelievi a elevato rischio delazione

di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
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La circolare n. 27/E del 2015 non ha affatto entusiasmato gli operatori impegnati nella procedura di voluntary disclosure, i quali attendevano chiarimenti fondamentali per sbloccare alcune posizioni. Nel coacervo dei quesiti proposti, però, è giunta una risposta di estrema pericolosità, destinata ad ingarbugliare in maniera elevata le procedure avviate. Di sicuro la domanda posta non era semplice da affrontare, avendo riguardo alle giustificazioni da fornire in merito ai prelievi effettuati all’estero, ma la risposta, abbastanza contorta, reca una affermazione finale che appare invero molto delicata: potrebbe esservi l’esclusione della procedura per incompletezza.

Il messaggio fornito è chiaro: bisogna indicare il destino dei prelievi effettuati. Pochi importi saranno giustificati, essendo effettuato un richiamo ad un importo di riferimento rappresentato dai rendimenti ottenuti, mentre in relazione ad importi più consistenti il fisco si attende delle precise indicazioni.

I dubbi sono tantissimi e le critiche alla posizione assunta sono molteplici. Anzitutto pare assurdo riferirsi, come idonea giustificazione, alla dichiarazione di trasporto del contante al seguito, casistica assolutamente inverosimile: se esiste un solo cliente che ha prelevato da un conto non dichiarato e poi, alla dogana, si è preoccupato di avvisare il fisco di avere dei soldi al seguito provenienti da un conto “occulto”, è da ricovero immediato.  Il vero problema sul piano documentale è che trattasi di “contante”, rispetto al quale evidentemente si rischia di imbattersi nella prova diabolica per eccellenza, non potendo documentare il destino dei soldi in assenza di utilizzo di mezzi di pagamento tracciati. Ma è soprattutto l’affermazione del potenziale “annullamento” della VD a preoccupare. Si pensi in primo luogo ai soggetti titolari di reddito d’impresa, anche in forma societaria, laddove si pone l’ulteriore problema della presunzione legale relativa in materia di indagini finanziarie. Chi approccia alla VD e non ha idonee spiegazioni, sembra trovarsi innanzi ad un bivio: rischiare l’annullamento oppure procedere alla VD nazionale per “autoapplicarsi” il recupero dei prelievi effettuati. Davvero appare una posizione “limite”, ma se il rischio è di veder travolgere la VD, con relativa irrogazione delle sanzioni piene e instaurazione di un contenzioso (ma attenzione, per i paesi Black List collaborativi quale Svizzera e Montecarlo il rischio ben superiore è vedere esplodere gli anni accertabili, potendo a questo punto risalire fino al 2004 per le violazioni del quadro RW e al 2006 per quelle afferenti i redditi), allora forse è il sacrificio minore (anche se sembra una sorta di ricatto implicito).

La soluzione però lascia un dubbio irrisolto, posto che nella relazione della VD dovrà comunque essere indicato l’acquisto a nero effettuato: è necessario chiedersi se ciò sarà sufficiente e magari sarà possibile affermare di essersi rivolti a diversi fornitori e di non avere certezza degli importi spesi con ciascuno, oppure,  trovandosi in una situazione di totale inversione di posizioni rispetto al fisco, sarà anche conseguente un’azione di “delazione” verso altri soggetti (ad esempio, ho acquistato merce dal fornitore X, che sarà dunque accertato per vendite a nero). In tale ultima ipotesi, però, se da un lato bisogna essere consapevoli di “bruciare” i rapporti con il fornitore in questione, dall’altro il contribuente dovrà essere sicuro delle sue affermazioni, posto che potrebbe ritrovarsi delle denunce per eventuali falsità asserite all’amministrazione finanziaria.

Per le persone fisiche la situazione non è meno complicata, anche se almeno un fronte di rischio è contenuto, quello reddituale, posto che nessuna presunzione legale può essere avanzata e dunque recuperi impositivi non vi saranno. Il problema maggiore è che la risposta fornita in circolare effettua un riferimento alquanto strano ad una sorta di “soglia” di normalità dei prelievi legata ai rendimenti esteri, mentre prelievi maggiori potrebbero essere visti come “anomali”. Una simile posizione potrebbe condurre ad una notevole difficoltà di spiegazione degli accaduti, soprattutto in presenza di soggetti del tutto avulsi dai meccanismi accertativi in materia di indagini finanziarie (si pensi ai pensionati) e che dunque hanno sempre ritenuto di poter liberamente utilizzare i propri soldi accumulati all’estero. In realtà la combinazione ideale dovrebbe essere “frequenza del prelievo”, “importo prelevato” e “distanza dal luogo di detenzione del capitale”: appare evidente, infatti, che chi è in zona di confine può decidere di recarsi anche ogni due settimane e prelevare importi necessari al vivere quotidiano, mentre altri soggetti che si recano ogni mese o addirittura a distanza di mesi ben potranno aver prelevato importi più consistenti, ma sempre destinati agli scopi personali per i mesi successivi.

Altro argomento delicato sarà provare “lo scopo personale” e francamente al riguardo non si ritiene possibile limitarsi al mero rendimento. Possono esservi esigenze di vita particolari e decisioni diverse, con dunque prelievi più consistenti in precisi periodi di tempo (si immagini la proprietaria di immobili che vive di fitti e che in un certo periodo si ritrova con immobili non locati: è evidente che i prelievi maggiori sono serviti a tutte le occorrenze). Superato questo primo scoglio permane quello ben più grande del destino di prelievi consistenti. In tal caso o si procede con documentazione in qualche modo conservata (acquisto di gioielli, spese di viaggi, amenità varie, etc), oppure mediante autocertificazioni (magari sono effettuati regali a parenti vari che attestano di aver ricevuto soldi), oppure ancora è possibile documentare il successivo accesso alle cassette di sicurezza detenute in Italia (altro chiarimento contenuto nella circolare n. 27, ma con l’esigenza di avere un accesso alla cassetta di sicurezza in data ravvicinata al prelievo estero). In assenza di ciò, non resta che la strada della delazione: “ho pagato la ditta X per l’effettuazione di lavori di ristrutturazione al mio immobile in città, ho pagato la ditta Y per quest’ulteriore motivo etc”.

Sembra inutile ogni commento su quel che può accadere in simili ipotesi, ma di certo sembra una complicazione assurda. Solo che non si pongono vie d’uscita: il motto sarà “mors tua, vita mea”. Dovendo salvare la VD e i vantaggi insiti, non potranno che sacrificarsi gli altri, in un “tutto contro tutti” che non è dato sapere dove potrà condurre. Di sicuro ai contribuenti bisogna sottolineare due aspetti:

  • non possono non dire che utilizzi hanno fatto dei soldi (sperando che si ricordino, in linea di massima, cosa è accaduto);
  • non possono “inventare” soluzioni non attendibili o indicare fatti e circostanze non veritiere. Ad esempio, si immagini di indicare un nominativo il quale poi proceda non solo a smentire il tutto, ma anche a provare gli accaduti e a denunciare la falsa delazione. Il contribuente non soltanto dovrà rispondere della denuncia subita, ma si ritroverà anche ad avere l’ulteriore conseguenza della falsa dichiarazione nella procedura di VD e l’annullamento della procedura medesima.

Il tutto nella grande incognita finale del non sapere quali ulteriori implicazioni potranno aversi, sia sufficiente pensare alle sanzioni valutarie per trasporti oltre soglia, alle segnalazioni da rischio “riciclaggio” (rimesso alla valutazione del consulente), alla potenziale configurazione di donazioni di vario genere. Non c’è che dire, proprio una grande intuizione, un incentivo all’emersione e una semplificazione. Nonché un indirizzo preciso: forse è meglio procedere con il ravvedimento operoso, soprattutto quando non ci sono implicazioni di carattere penale.